Bologna, 31 maggio 2010.
Cari amici,
seguendo il suggerimento di diversi di voi cerco di recupeare una frequenza più ravvicinata di questi messaggi. E dedico questo dispaccio principalmente al congresso provinciale del PD, giunto a un terzo del cammino. Rammento che per non ricevere più questi messaggi è sufficiente chiedermi la cancellazione da questa lista, mentre se avete amici interessati segnalatemi la loro e-mail.
Due gli argomenti di questa nota:
1) INFORMAZIONE E POTERE. UN CASO DI SCHIENA DRITTA
2) CONGRESSO PD, OVVERO VIAGGIO NEL PARTITO REALE
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1) INFORMAZIONE E POTERE. UN CASO DI SCHIENA DRITTA.
Grazie ad un amico che mi ha spedito il testo integrale, ho potuto leggere ed apprezzare la lettera con la quale la conduttrice televisiva Maria Luisa Busi ha rinunciato alla conduzione del TG 1.
Una premessa. Quando una ventina di anni fa pensavo di fare il giornalista (ho tuttora la tessera da pubblicista), frequentavo corsi di giornalismo televisivo dove ci insegnavano a riconoscere le varie corde che compongono la conduzione di un TG. La Busi era già allora considerata un buon modello, ma negli anni diventò un vero esempio di equilibrio tra distacco e partecipazione emotiva: al di là del parlato, mi piaceva in lei l'uso misurato ma efficace del linguaggio facciale (un'alzata di sopracciglia, uno stringere di labbra...), a sottolineare il passaggio tra generi diversi (es. dalla politica alla cronaca nera, o da questa alla cronaca rosa), o a trasmettere un giudizio discreto, non verbale, ma evidente. Insomma, una vera professionista del video, completa e rifinita.
Bene, questa donna, questa giornalista, che ormai vedevo di rado (guardo pochissimo la TV), se ne esce il 21 maggio scorso con una lettera al direttore del TG1 (che riporto sotto con qualche taglio) che offre a mio giudizio una celebrazione sobria ma ferma di quel che dovrebbe essere il mestiere di giornalista, e ci regala un esempio raro di disponibilità a pagare di persona la fedeltà ad un proprio ideale di professione.
"Ti chiedo di essere sollevata dalla mansione di conduttrice dell’edizione delle 20 del Tg1, essendosi determinata una situazione che non mi consente di svolgere questo compito senza pregiudizio per le mie convinzioni professionali. Questa è per me una scelta difficile, ma obbligata. Considero la linea editoriale che hai voluto imprimere al giornale una sorta di dirottamento, a causa del quale il Tg1 rischia di schiantarsi contro una definitiva perdita di credibilità nei confronti dei telespettatori. Come ha detto il presidente della Commissione di Vigilanza Rai Sergio Zavoli: “La più grande testata italiana, rinunciando alla sua tradizionale struttura ha visto trasformare insieme con la sua identità, parte dell’ascolto tradizionale”.
UNA VOCE SOLA. Amo questo giornale, dove lavoro da 21 anni. Perché è un grande giornale. È stato il giornale di Vespa, Frajese, Longhi, Morrione, Fava, Giuntella. Il giornale delle culture diverse, delle idee diverse. Le conteneva tutte, era questa la sua ricchezza. Era il loro giornale, il nostro giornale. Anche dei colleghi che hai rimosso dai loro incarichi e di molti altri qui dentro che sono stati emarginati. Questo è il giornale che ha sempre parlato a tutto il Paese. Il giornale degli italiani. Il giornale che ha dato voce a tutte le voci. Non è mai stato il giornale di una voce sola. Oggi l’informazione del Tg1 è un’informazione parziale e di parte. Dov’è il paese reale? Dove sono le donne della vita reale? Quelle che devono aspettare mesi per una mammografia, se non possono pagarla? Quelle coi salari peggiori d’Europa, quelle che fanno fatica ogni giorno ad andare avanti perché negli asili nido non c’è posto per tutti i nostri figli? Devono farsi levare il sangue e morire per avere l’onore di un nostro titolo. E dove sono le donne e gli uomini che hanno perso il lavoro? Un milione di persone, dietro alle quali ci sono le loro famiglie. Dove sono i giovani, per la prima volta con un futuro peggiore dei padri? E i quarantenni ancora precari, a 800 euro al mese, che non possono comprare neanche un divano, figuriamoci mettere al mondo un figlio? E dove sono i cassintegrati dell’Alitalia? Che fine hanno fatto? E le centinaia di aziende che chiudono e gli imprenditori del nord-est che si tolgono la vita perché falliti? Dov’è questa Italia che abbiamo il dovere di raccontare? Quell’Italia esiste. Ma il Tg1 l’ha eliminata. Anche io compro la carta igienica per mia figlia che frequenta la prima elementare in una scuola pubblica. Ma la sera, nel Tg1 delle 20, diamo spazio solo ai ministri Gelmini e Brunetta che presentano il nuovo grande progetto per la digitalizzazione della scuola, compreso di lavagna interattiva multimediale.
DOV’É L’ITALIA? L’Italia che vive una drammatica crisi sociale è finita nel binario morto della nostra indifferenza. Schiacciata tra un’informazione di parte – un editoriale sulla giustizia, uno contro i pentiti di mafia, un altro sull’inchiesta di Trani nel quale hai affermato di non essere indagato, smentito dai fatti il giorno dopo e l’infotainment quotidiano: da quante volte occorre lavarsi le mani ogni giorno, alla caccia al coccodrillo nel lago, alle mutande antiscippo. Una scelta editoriale con la quale stiamo arricchendo le sceneggiature dei programmi di satira e impoverendo la nostra reputazione di primo giornale del servizio pubblico della più importante azienda culturale del Paese. Oltre che i cittadini, ne fanno le spese tanti bravi colleghi che potrebbero dedicarsi con maggiore soddisfazione a ben altre inchieste di più alto profilo e interesse generale. Un giornalista ha un unico strumento per difendere le proprie convinzioni professionali: levare al pezzo la propria firma. Un conduttore può soltanto levare la propria faccia, a questo punto. Nell’affidamento dei telespettatori è al conduttore che viene ricollegata la notizia. È lui che ricopre primariamente il ruolo di garante del rapporto di fiducia che sussiste con i telespettatori.
“SCODINZOLINI”. I fatti de L’Aquila ne sono stata la prova. Quando centinaia di persone hanno inveito contro la troupe che guidavo al grido di vergogna “scodinzolini”, ho capito che quel rapporto di fiducia che ci ha sempre legato al nostro pubblico era davvero compromesso. È quello che accade quando si privilegia la comunicazione all’informazione, la propaganda alla verifica. Un’ultima annotazione più personale. Ho fatto dell’onestà e della lealtà lo stile della mia vita e della mia professione. Dissentire non è tradire.
(...) Respingo l’accusa che mi è stata mossa di sputare nel piatto in cui mangio. Ricordo che la pietanza è quella di un semplice inviato, che chiede semplicemente che quel piatto contenga gli ingredienti giusti. Tutti e onesti. E tengo a precisare di avere sempre rifiutato compensi fuori dalla Rai, lautamente offerti dalle grandi aziende per i volti chiamati a presentare le loro convention, ritenendo che un giornalista del servizio pubblico non debba trarre profitto dal proprio ruolo. (...)
RISPETTO. Trovo inoltre paradossale la tua considerazione seguente: “Il Tg1 darà conto delle posizioni delle minoranze ma non stravolgerà i fatti in ossequio a campagne ideologiche”. Posso dirti che l’unica campagna a cui mi dedico è quella dove trascorro i weekend con la famiglia. Spero tu possa dire altrettanto. Viceversa ho notato come non si sia levata una tua parola contro la violenta campagna diffamatoria che i quotidiani Il Giornale, Libero e il settimanale Panorama – anche utilizzando impropriamente corrispondenza aziendale a me diretta – hanno scatenato nei miei confronti in seguito alle mie critiche alla tua linea editoriale. Un attacco a orologeria: screditare subito chi dissente per indebolire la valenza delle sue affermazioni. Sono stata definita “tosa ciacolante – ragazza chiacchierona – cronista senza cronaca, editorialista senza editoriali” e via di questo passo. Non è ciò che mi disse il presidente Ciampi consegnandomi il Premio Saint Vincent di giornalismo. A queste vigliaccate risponderà il mio legale. Ma sappi che non è certo per questo che lascio la conduzione delle 20. Thomas Bernhard in “Antichi Maestri” scrive decine di volte una parola che amo molto: rispetto. Non di ammirazione viviamo, dice, ma è di rispetto che abbiamo bisogno. Caro direttore, credo che occorra maggiore rispetto. Per le notizie, per il pubblico, per la verità. Quello che nutro per la storia del Tg1, per la mia azienda, mi porta a questa decisione. Il rispetto per i telespettatori, nostri unici referenti. Dovremmo ricordarlo sempre. Anche tu ne avresti il dovere.
Maria Luisa Busi
Grazie Maria Luisa. Abbiamo bisogno di persone così, a tutti i livelli.
2) CONGRESSO PD, OVVERO VIAGGIO NEL PARTITO REALE
Come forse saprete, il congresso del Partito Democratico di Bologna si sta svolgendo in questi giorni (dal 23 maggio all'8 giugno) attraverso tante assemblee di circolo (sono circa 130 in provincia di Bologna: 110 territoriali più una ventina aziendali). Come spero sappiate, i candidati a segretario provinciale sono due: da una parte Raffaele Donini, fino a un certo punto "candidato unico" (e "segretario in pectore", come l'ha definito certa stampa cittadina), forte dell'appoggio compatto dei vertici attuali (è il vice del segretario uscente De Maria) e dei dirigenti di tutte le 3 aree congressuali di ottobre (Bersani, Franceschini, Marino); dall'altra Piergiorgio Licciardello, definito "outsider" o "sfidante", segretario del PD del quartiere Santo Stefano (terra di frontiera, uno dei territori più rivolti a destra di tutta la provincia), arrivato al PD senza avere avuto tessere di altri partiti, ingegnere informatico con responsabilità manageriali, un lavoro normale (indipendente dalla politica), una famiglia impegnativa (moglie e 3 figli), che gli permettono di conoscere parole come economia, crisi, scuola, mercato, occupazione in presa diretta e non solo dagli articoli del giornale.
Come è ovvio (date le mie convinzioni sulle facili derive di un personale politico di mestiere, sempre più lontano e ignaro delle dinamiche e dei problemi del lavoro vero, e preoccupato essenzialmente di autoriprodursi) sostengo decisamente Piergiorgio (vedi il sito licciardellosegretario.wordpress.com), pur avendo conosciuto da vicino Raffalele (siamo stati colleghi in consiglio provinciale), e stimandolo come persona pulita, intelligente, affabile e misurata. Sono però convinto che il PD abbia bisogno di una forte discontinuità, mentre al di là delle intenzioni personali di Donini è sempre più evidente, dagli argomenti che i suoi sostenitori avanzano nelle assemblee di circolo, che la sua candidatura nasconde di fatto un patto di conservazione e di non belligeranza tra gli assetti di potere e gli interessi che tengono insieme il PD bolognese, e che gli legheranno le mani una volta segretario.
Ma la cosa interessante di questi giorni (molto faticosi per chi come noi - il gruppo di sostegno a Piergiorgio - deve conciliare attività politica con i clienti da seguire o il cartellino da timbrare, e dividersi ogni sera correndo chi a Crevalcore chi a Porretta, mentre l'altra parte ha tutta la struttura del partito dedicata: 850 mila euro di stipendi, dice l'ultimo bilancio presentato in via Rivani, equivalenti a una forza lavoro dedicata di una ventina di addetti, più i volontari, i sindaci, i segretari di circolo allertati...) è la straordinaria opportunità di conoscere da vicino le facce e i luoghi del PD, così come è presente sui territori e nei luoghi di lavoro. Un meraviglioso viaggio nel partito reale, sul quale a congresso finito avrei di che scrivere un libro.
A partire dai luoghi, che parlano più dei documenti, soprattutto se lontani dalla città e mai ristrutturati né riarredati. A parte l'insegna esterna, che è stata aggiornata all'evolversi delle cose e infatti recita PD, l'interno è spesso una stupenda galleria di simboli storici del PCI, dai manifesti alle foto, Berlinguer, Gramsci e Togliatti. E poi il lessico, molto diverso tra città e campagna, tra pianura e montagna. Parlare forbito è apprezzato a Bologna e nei primi 15-20 chilometri dal capoluogo, dopo, soprattutto verso la Toscana, meglio essere semplici a costo di apparire rozzi. Infine i temi politici: se in circoli intellettuali la parola immigrazione si accompagna, negli interventi, con integrazione e multiculturalità, più ti allontani dal centro più la senti accostata a fatica e domanda di ordine e legalità.
Poi le persone, i ragionamenti pubblici e privati, le confidenze raccolte. La prima cosa che mi ha colpito è l'incredibile varietà degli argomenti dei sostenitori di Donini, che in un circolo ne decantano la grande spinta di rinnovamento, e in quello vicino la garanzia dovuta alla sua esperienza nel partito. Fino al paradosso che la sera stessa nella quale lui dichiarava ai giornali di volere decisamente le primarie, un suo grande sponsor politico invitava a votare per lui dopo aver detto che le primarie sono una sciocchezza.
Un'altra cosa che emerge da questo tour de force è l'esistenza, nella base del partito, di due tipologie di militante molto diverse tra di loro, che definirei così: da una parte la "quota contendibile", ovvero di iscritti che partecipano, ascoltano e decidono sul momento, convinti che il miglior servizio che possono fare al partito è scegliere (e magari sbagliare) con la propria testa; e dall'altra parte la "quota non contendibile", che evita il confronto e viene solo per votare, quasi ad assolvere un dovere di fedeltà, di pura appartenenza. L'obbedienza al capo di riferimento è vissuta qui sinceramente come la forma più alta ed efficace di opposizione alla destra e di contrasto a Berlusconi: te ne accorgi quando, nei dibattiti, emerge la nostalgia del candidato unico e il disagio per la competizione interna, alla quale si reagisce con un accorato e preoccupato appello all'unità. E quando, domandando a quelli che vengono a votare saltando a piè pari la discussione, se conoscono i due candidati, ti senti rispondere "Siamo già informati".
Ferisce invece la diffusione, nel partito, di situazioni di poca libertà, di ricatti taciti, a far capire che il posizionamento "fuori linea" espone a conseguenze negative, nel partito e non solo. Ci sono state diverse persone che dopo avere espresso interesse per la nostra iniziativa sono state richiamate e si sono tirate indietro, non sempre per libero convincimento. E ci sono state raccontate vicende davvero umilianti.
Ma la riflessione più amara, a mio giudizio, riguarda quella categoria tanto invocata quanto rara nel nostro partito, ovvero i giovani, in particolare quelli organizzati o inseriti in qualche struttura del partito. A parte le debite eccezioni, sembrano avere in maggioranza studiato il "manuale del giovane funzionario", e dalla postura al tono di voce alle circonlocuzioni in puro politichese sembrano voler imitare in tutto e per tutto il modello di dirigente che riesce a parlare minuti e minuti senza dire nulla. Emblematica, in un circolo a forte presenza giovanile, la sequenza a cui ho assistito, di interventi di ragazzi venticinquenni, dai quali ti aspetteresti rivendicazioni anche sbagliate, eccessi passionali, giudizi trancianti e azzardi utopici, e che invece ti spiegano che per loro Donini è il politico ideale "per la grande conoscenza della macchina del partito di cui è portatore".
Bisognerà un bel giorno, finito il congresso, aprire una riflessione sulla poca propensione al rischio, alla lotta, all'indipendenza dei giovani nel nostro partito. Sul tipo di selezione e di formazione, psicologica e politica, messo in atto dalle organizzazioni politiche giovanili. Sulla sistematica devitalizzazione delle ghiandole produttrici di ormoni che il percorso di carriera impone alle nuove leve, ai dirigenti in erba. Non c'è da meravigliarsi se chi ha coraggio, disponibilità al sacrificio, capacità di lottare e di soffrire per un obiettivo, un sogno, un ideale fugge lontano dai partiti e si dedica ad altro.
Due storie istruttive, per finire.
Prima storia. Ambientazione: circolo di montagna, appuntamento alle 21. Presenti alla riunione, 8 persone (più noi esterni). Ci dicono che qualche iscritto ha già votato prima di iniziare, aveva un impegno: hanno fatto un'eccezione per favorire la partecipazione, vuoi opporti? La discussione (che si svolge sempre così: le 2 mozioni vengono presentate ciascuna in 15 minuti, dopo di che si apre il dibattito) procede pacificamente, due dei presenti ci chiedono copia della nostra mozione. Alle 22.15 è tutto finito, dibattito e voto, fuori tira vento, i presenti se ne vanno, difficile arrivi ancora qualcuno. Ci propongono di anticipare lo spoglio delle schede alle 22.45, specificando che se arriva qualcuno entro le 23 bisogna però farlo votare, perché nella convocazione c'era scritto che si votava fino a quell'ora. Il risultato è che su una decina di voti vince Donini, ma Licciardello si difende. Stiamo per spegnere la luce quando alle 23 in punto si presentano alcuni uomini dal bar vicino, chiedendo di votare. Opporsi significa assumere un atteggiamento polemico, così acconsentiamo. I voti per Donini salgono di qualche unità, sufficiente a portare Licciardello circa dal 25% al 15%. Se a votare fossero stati solo i partecipanti al dibattito, al netto dei voti anticipati e di quelli sul filo di lana, il risultato sarebbe stato parecchio diverso.
Seconda storia. Circolo di città, giorno di weekend. L'assemblea si apre alle 10, le urne poco dopo (c'è chi deve andare via...), una quindicina i presenti; presentazione mozioni e dibattito durano fino alle 12, ora nella quale risultano aver votato poco più di una decina di iscritti. Verso le 13 salutiamo e andiamo a pranzo, lasciando garante e segretario locale a custodia del seggio, aperto fino alle 16, ora in cui torniamo per assistere allo spoglio. Impariamo che in nostra assenza hanno votato ben 93 (novantatre!) iscritti (una percentuale altissima rispetto alla media). E in un circolo che nel 2009 aveva 200 iscritti, dei quali fino alla settimana scorsa solo 70 avevano rinnovato. Doppia stranezza: che di 90 elettori circa 15 abbiano votato nelle prime 3 ore, e circa 75 nelle ultime 3 ore. E che i votanti siano stati pari al 130 % di quanti avevano rinnovato la tessera fino al giorno prima. Forte affermazione di Donini, ma Licciardello resta sopra al 10%. Se si fossero chiuse le urne alle 13.00, sono convinto che saremmo stati al 50%.
Concludendo, la sensazione generale è che questo partito abbia
una forte componente che non è contendibile sul piano delle idee, della proposta politica. Non è una novità: vecchi amici democristiani mi raccontano della tratta delle vecchiette nei giorni delle votazioni. Ma nostante che la partita si giochi in questa cornice, con mia grande soddisfazione la mozione Licciardello regge con percentuali dignitose ovunque, dal 10% dei circoli più militarizzati al 30 o 40% di quelli dove prevale il voto d'opinione su quello d'appartenenza.
Ad oggi, sui circa 40 circoli che si sono già espressi, viaggiamo sul 25% dei consensi, e in 3 circoli (2 di città, uno di provincia) abbiamo addirittura vinto. Se il confronto fosse ad armi pari e sulla capacità di persuadere, saremmo in vantaggio noi. E se banalmente votasse solo chi partecipa alle assemblee, saremmo intorno al 40%.
Queste mie sono riflessioni, non accuse.
Abbiamo accettato di giocare la partita con queste regole e in questo quadro: lo scopo nostro finale è quello di cambiarlo, ma durante la partita dobbiamo accettarlo. Senza chiuderci gli occhi e la bocca, ma anche senza gridare al complotto. Siamo in campo, giochiamo fino in fondo, facendo buon viso e sapendo che se il PD avrà un futuro, sarà solo nella direzione di una maggiore libertà e contendibilità interna. A governare il partito con il guinzaglio ce n'è già uno di molto capace, ed è più bravo di noi. Per batterlo dobbiamo essere, ed apparire, diversi.
Buon congresso, e buona notte a tutti.