Una riflessione a margine del dibattito sorto a Bologna a luglio 2007 rispetto a rivendicazioni e comportamenti dei politici locali sulle proprie retribuzioni.
Quanti tengono al valore della democrazia e alla credibilità della politica dovrebbero essere grati ai giornalisti che hanno (finalmente) messo sotto i riflettori della pubblica opinione una prassi inaccettabile, quella di figurare presenti a riunioni alle quali di fatto non si partecipa. La giustificazione storicamente addotta a tale comportamento, molto diffuso, è che il gettone rappresenta la forma di retribuzione per l’attività politica complessiva del consigliere, il quale esercita il suo mandato anche incontrando cittadini, studiando documenti, e non solo presenziando alle commissioni. Questo è certamente vero, ma finché vige il criterio della firma di presenza, è bene rispettarne la sostanza, oltre che la forma, proprio per non svilire la dignità del mandato rappresentativo ricevuto dagli elettori.
Due osservazioni al riguardo, una economica e l’altra psicologica.
Quella economica: non è vero che una commissione come quella finita nell’occhio del ciclone sia costata 2.100 Euro alla collettività. Ne è costata ben di più. Quanti tra i consiglieri (in Comune ma anche in Provincia) sono infatti lavoratori dipendenti, oltre al gettone hanno il rimborso per la giornata (o la mezza giornata) lavorativa non esercitata. In pratica, lo stipendio pagato dal datore di lavoro al dipendente che è anche consigliere viene “girato” sul conto dell’amministrazione nel quale in consigliere è eletto, in misura proporzionale al tempo trascorso nell’amministrazione e non sul posto di lavoro. Questo sistema genera due ingiustizie: la prima è che introduce una disparità evidente tra dipendenti (che cumulano gettoni e stipendio) e lavoratori autonomi (che non hanno questa possibilità). La seconda è che la collettività finisce per farsi carico di un costo stabilito da un patto tra privati (il datore di lavoro e il lavoratore), e che nulla ha a che fare col mandato rappresentativo: e mi spiego con un esempio. L’operaio o l’impiegato con uno stipendio mensile lordo di 2.000 Euro, il quale, da eletto, trascorra il 50% del suo tempo in Comune (o in Provincia), viene a “costare” ogni mese, oltre ai gettoni, 1.000 Euro in più alla collettività. Il dirigente con un mensile da 10.000 Euro, a parità di impegno come consigliere, viene invece a gravare per 5.000 Euro in più. Ma i 2.000 o i 10.000 Euro sono frutto di una contrattazione privata tra lavoratore ed azienda, e non si capisce perché la collettività debba farsene carico.
Quella psicologica, per spiegare la quale parto da un episodio vissuto. Un amico mi invitò un’estate al mare da lui, dove aveva una piccola barca a motore, che però utilizzava poco, quasi ne fosse imbarazzato. A me – possessore di un canotto gonfiabile a remi – sembrava invece una bella opportunità, e insistetti per uscire in mare. Accompagnandolo in porto a tirar fuori la barca capii la sua frustrazione: accanto ai motoscafi da 300 cavalli e agli yacht da 18 metri, quella barchina sembrava un’attestato di povertà. Eppure, fuori da quel porto turistico, davanti ad una spiaggia comune piena di bagnanti col materassino, sarebbe sembrata un sogno.
Fuori di metafora: davanti alle critiche su come utilizza le prerogative assegnategli per esercitare un ruolo nel pubblico interesse, il personale politico reagisce fondamentalmente in due modi. Il primo è quello di confrontare la propria condizione con quella di altri all’interno dello stesso mondo, da cui le tesi di Foschini qualche mese fa, poi di Errani sul Corriere di domenica: “siamo i meno pagati, guardate cosa fanno a Palermo o a Bolzano, dovrebbero darci di più…”, nel solco di una tendenza diffusa e documentata in modo puntuale e divertente nel prezioso lavoro di Sergio Rizzo e Gian Antonio Stella “La Casta”. Il secondo è quello di confrontarsi invece con la condizione dei cittadini medi, che dovremmo rappresentare e ai quali dovremmo rispondere anche di come utilizziamo le risorse (soldi, uffici, segretarie, cancelleria, pass…), che siano molte o che siano poche, che ci sono state assegnate per l’esercizio della nostra funzione pubblica.
Infine una nota di linguaggio. Gabriella Ercolini (già promotrice, come consigliera provinciale, dell’allargamento da 18 a 25 componenti le Commissioni Consiliari della Provincia, con evidenti ricadute sui costi) sul Corriere di martedì scorso definiva “sottopagati” i sindaci dei comuni. L’espressione mi ha ricordato una intervista rilasciata da D’Alema a Massimo Giannini, su Repubblica del 23 dicembre 2005, nella quale l’attuale ministro degli esteri rivendicava come “sacrificio” l’accantonamento di 8.000 (ottomila) Euro al mese per acquistarsi la barca, e utilizzava l’espressione “campo del mio stipendio” per definire il suo menage economico da parlamentare. Domando: se spendiamo parole come “sottopagati” o “sacrifici” o “campare” in situazioni simili, quali altre parole ci restano per i precari o le famiglie numerose e monoreddito?
18 luglio 2007
Andrea De Pasquale
Consigliere Provinciale