Bologna, 10 settembre 2015
Cari amici,
molte cose sono successe in questi mesi sulla scena politica bolognese, e fatico a riassumerle. Mi concentro allora su un tema di attualità, quello dell'emergenza abitativa e delle occupazioni, rinviando l'aggiornamento sugli altri temi (mobilità, economia, ecc.) ad un prossimo messaggio (spero non fra 4 mesi...)
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OCCUPAZIONI E POLITICHE DELLA CASA: LA DIFFERENZA SMARRITA TRA CARITA', POLITICA E CLIENTELA.
L'estate bolognese è stata segnata da un acceso dibattito sul tema casa, occupazioni, emergenza abitativa, che ha diviso l'opinione pubblica e lo stesso Pd, arrivando addirittura a generare una tensione, percepibile a un occhio attento, tra le maggiori istituzioni cittadine (Comune, Prefettura, Questura e Procura della Repubblica).
Il fatto è che la pratica occupazioni (alcune delle quali sono ormai vecchie di anni: come quella delle scuole su via Toscana, dell'ex Teelecom di via Fioravanti, di via De Maria di fronte alla nuova Stazione Alta Velocità) viene trattata, da parte del Comune, in maniera a dir poco contraddittoria.
Se da un lato infatti il sindaco Merola fa dichiarazioni che richiamano il principio di legalità (e la stessa Conferenza Programmatica del PD al riguardo è stata molto chiara, nel suo documento conclusivo), la prassi amministrativa della Giunta sembra andare in senso contrario: si riallacciano le utenze agli stabili occupati a carico della collettività; gli assessori Frascaroli e Malagoli prendono posizione contro gli sgomberi, criticando polizia e magistrati, e addirittura lodando l'esperienza delle occupazioni come momento di socialità e solidarietà; i collettivi responsabili di queste azioni vengono legittimati come interlocutori politici; fino al documento pubblicato oggi dal Carlino (la cui esistenza era stata fieramente negata dal sindaco) in cui il Comune esercita la sua "moral suasion" sulle istituzioni preposte a far rispettare la legge perché non agiscano con gli sgomberi in agosto, facendo in questo modo un favore ai Centri Sociali, che in estate rischiavano di essere sguarniti causa ferie.
C'è tuttavia un modo totalmente diverso di inquadrare il tema, ed è quello (proprio di una parte della sinistra, di un certo mondo ecclesiale e anche di diversi miei amici e compagni di battaglie su altri temi) che vede nelle occupazioni una protesta sociale giusta e condivisibile, un metodo di lotta legittimo e "profetico", in quanto orientato ad una giustizia sostanziale che va oltre la legalità formale, perché in fondo punta a mettere a disposizione di famiglie povere e senza tetto degli edifici inutilizzati di proprietari ricchi che non sanno che farsene.
Personalmente sono dispiaciuto di trovarmi, su questo argomento, contro una buona parte del mio mondo di provenienza: in primis l'assessore al welfare Amelia Frascaroli (era la mia responsabile in Caritas mentre io facevo servizio civile), il neoconsulente del sindaco don Giovanni Nicolini (che ho lungamente seguito da giovane, in seminari, campi e ritiri, e che tutt'ora considero un maestro di esegesi biblica, non politica), e in generale persone che leggono la vicenda come una contrapposizione tra poveri e ricchi, tra deboli e garantiti, dove Centri Sociali, Movimenti Antagonisti e Collettivi sarebbero i difensori dei primi, e io (e in generale la posizione legalitaria) dei secondi.
Provo a spiegare perché questa lettura mi sembra sbagliata e fuorviante, con un ragionamento in quattro punti:
A. Storia delle assegnazioni.
B. Economia delle occupazioni (e punti di contatto con la cosiddetta "industria culturale" bolognese)
C. L'atteggiamento del Comune: conseguenze sociali (e prevedibilmente elettorali).
D. La differenza tra carità e politica.
A. Storia delle assegnazioni.
Quella delle politiche di assegnazione degli alloggi di Edilizia Pubblica Residenziale a Bologna è una storia complessa, e coinvolge istituzioni, partiti, aziende (ACER).
Fin dagli anni '80 del secolo scorso a Bologna l'assegnazione di case pubbliche avveniva direttamente per via politica, attraverso la famosa Commissione Consultiva, che in modo totalmente discrezionale e "ad personam" decideva su singoli casi segnalati da singoli politici. Lo schema era praticato un po' da tutte le forze politiche, ma in particolare era la sinistra radicale (presente in Consiglio comunale), in accordo con quella antagonista (attiva fuori dalle istituzioni) che teneva in mano il pallino delle assegnazioni, come ben presto imparavano le famiglie in lista d'attesa. Suggerisco al riguardo la lettura della relazione dell'ex assessore Antonio Amorosi del 2005.
La prassi prevedeva che l'assessore di turno, sollecitato da consiglieri o comunque esponenti di partito, presentasse il singolo caso "bisognoso", poi assegnasse l'abitazione in via emergenziale, quindi "stabilizzasse" l'assegnazione facendola diventare permanente. Questo significa - come scrisse Amorosi - "che i cittadini entrati nelle case attraverso l'emergenza divenivano formalmente portatori di più diritti dei cittadini che avevano partecipato a bando pubblico, sottoposti invece a tutti i controlli, e che grazie a questa procedura diverse situazioni con redditi alti apparivano contemporaneamente come casi di emergenza, come consolidati inquilini dell'ERP o come casi sociali che improvvisamente miglioravano radicalmente la propria condizione economica".
In buona sostanza, per decenni a Bologna si è operato in modo arbitrario, con esiti palesemente ingiusti sul piano sociale, ignorando sistematicamente la distinzione tra livello politico (che fissa le regole generali) e livello tecnico amministrativo (che le applica al caso concreto), ma soprattutto consegnando ad una certa area politica un potere discrezionale e incontrollato in termini di utilizzo del patrimonio abitativo pubblico, e di conseguente scambio elettorale. Quest'area, che ha gestito per anni il "diritto alla casa" con una contrattazione diretta con singoli cittadini, gruppi organizzati, associazioni, è la stessa a cui oggi stanno strette le graduatorie pubbliche, e che guardacaso sostiene le occupazioni (fatte passare come risposta umanitaria a "casi di bisogno"), per riprendersi quel potere che da una decina d'anni le è stato sottratto, con la scelta di utilizzare criteri oggettivi e regole uguali per tutti, che attualmente non lasciano spazio a negoziazioni e scambi politico-elettorali in passato assai redditizi sul piano del consenso.
B. Economia delle occupazioni (e punti di contatto con la cosiddetta "industria culturale" bolognese).
Le occupazioni storicamente a Bologna non hanno riguardato principalmente case, ma capannoni e spazi ex industriali, in cui si organizzano feste, concerti, rave party. Talvolta con biglietti di ingresso, e sempre con grande consumo di birra, vino, superalcolici e altre sostanze, che generano incassi importanti, di decine di migliaia di Euro, e tutto in nero. Anni fa, mettendo piede ad un "evento" di questo genere, notavo come i 4 Euro chiesti (senza scontrino) per un modesta birra in un bicchiere di plastica non fossero paragonabili agli stessi 4 Euro di un'osteria il cui titolare paga affitto, tasse e camerieri. E una serata con 3 o 400 avventori si fa presto a fare qualche migliaio di euro (stavo per dire "di fatturato", solo che qui mancano le fatture...) E non stupisce che, nelle occupazioni residenziali, gli occupanti chiedano talvolta agli "ospiti" un contributo alle spese, una sorta di affitto.
Ma torniamo al mondo delle feste, degli aperitivi, e in generale del cosiddetto "divertimento giovanile", che a Bologna di fatto confina da vicino con le cosiddette "politiche culturali". E osserviamo come questo settore sia diventato a Bologna un interessante crocevia di traiettorie che intrecciano partito e istituzioni, movimenti e attività commerciali, gravitanti tutte intorno ad attività tipo l'organizzazione di feste e concerti, la gestione di dehors in spazi pubblici, la ristorazione e la vendita di alcolici.
Il dubbio ti viene considerando come da anni, nella vicenda di Piazza Verdi o via Del Pratello (ma direi in qualunque caso di scontro tra "quiete pubblica" e "divertimento"), il governo cittadino (in specie gli assessori Ronchi e Lepore) abbia sostanzialmente tenuto (finché possibile) le parti degli esercenti (o degli organizzatori di eventi) più che dei residenti, i quali hanno dovuto rivolgersi alla magistratura (con tempi e costi conseguenti) per far rispettare diritti elementari come quello alla salute e al sonno, e per costringere finalmente il Comune a prendere (malvolentieri) provvedimenti limitativi rispetto all'industria dello sballo.
Il sospetto si approfondisce ricordando come da anni vi sia una tradizione di politici eletti "a sinistra" che sponsorizzano campagne tipo "Cin cin" (Diego Benecchi ieri, oggi Lorenzo Cipriani) finalizzate a difendere la libertà di bevuta dentro e fuori dai locali (spesso gestiti da amici), e senza limiti di orario. E leggendo che il leader del TPO, l'indignato permanente Gianmarco De Pieri recentemente allontanato da Bologna da un provvedimento giudiziario (fortemente criticato, guardacaso, da esponenti politici "di sinistra"), negli intervalli tra una occupazione e una guerriglia di piazza gestisca una catena di locali.
Il quadro ti viene confermato dal fatto di ritrovare a distanza di qualche anno le stesse persone (giovani impegnati nel partito, nelle feste, nell'organizzazione) che da funzionari politici o da movimentisti di collettivi sono diventati manager di "imprese culturali" (tipo Estragon, per fare un esempio) o imprenditori nell'organizzazione di eventi e nella gestione di locali.
Questo intreccio di percorsi personali e professionali aiuta un po' a capire una certa "colleganza", e accondiscendenza, tra pezzi di amministrazione, pezzi di partito, e pezzi di impresa "culturale", che si esprime in una sorta di reciproca tutela. In fondo, il giovane dirigente scelto dall'ex segretario Donini come Reponsabile della Comunicazione del Partito, l'agile ed abile Davide Di Noi, non era forse contemporaneamente addetto alle Pubbliche Relazioni della discoteca Cocoricò? Il fatto che lo stesso profilo e stesse competenze fossero state scelte da due datori di lavoro teoricamente molto diversi (un partito e una discoteca) può dirci qualcosa.
Tornando alle occupazioni e al variegato mondo di Collettivi e Centri Sociali che le organizzano e gestiscono, l'impressione è che godano di una certa tolleranza politica anche perché, da un certo punto di vista, operano nello stesso settore (musica ed eventi, cibo e bevande) della grande "industria del divertimento", nella quale si incontrano politici ed ex politici bolognesi, e che prospera (o quantomeno vive) sotto la tutela bonaria di istituzioni che concedono spazi a condizioni di favore e chiudono diversi occhi sulle regole (acustiche, di sicurezza, di occupazione suolo pubblico, di rispetto degli orari, ecc.) Regole e tariffe che gli "imprenditori laici" devono (ahiloro) pagare e rispettare, e dalle quali invece gli operatori "amici" (perché connotati politicamente, perché nobilitati da cause sociali, come il Cassero ad esempio) vengono sollevati. In altre parole, l'impressione è che anche gli "occupanti" facciano parte di quel circuito ludico-cultural-politico che sfrutta la forte presenza giovanile in città e gode di benevola indulgenza da parte di una certa parte politica.
C. L'atteggiamento del Comune: conseguenze sociali (e prevedibilmente elettorali).
Per introdurre questo punto ho bisogno di ritrarre per un attimo la psicologia del "cittadino medio bolognese", che se va bene prende uno stipendio con cui fatica ad arrivare a fine mese, se va male ha perso il lavoro, ma tutti i giorni esce di casa e osserva cosa accade intorno, nella sua città, nel suo quartiere.
Il nostro "Mario Rossi" si è alzato un mattino trovando la bici rubata (hanno divelto il segnale stradale a cui l'aveva legata) oppure l'auto con il vetro rotto o in alternativa con una pila di mattoni al posto delle ruote (furto di gomme e cerchioni). Gira per le strade del quartiere scavalcando materassi scatoloni e rifiuti lasciati sui marciapiedi da qualcuno che ha svuotato i cassonetti, e mentre osserva l'opera di imbrattatori notturni su muri portici e portoni. Alla sera rientra a casa evitando le bottiglie lasciate sull'asfalto ma non riesce a dormire per il Rave Party organizzato nell'ex fabbrica occupata in fondo alla via, che è diventata impraticabile col buio date le facce che vi girano. Se prova a rivolgersi ad una qualsiasi autorità (vigili, polizia, carabinieri, quartiere, comune, ecc.) si accorge di essere completamente solo, senza tutela: nessuno può far nulla. Mario inizia ad avere paura. Unico segnale di vita delle istituzioni, la multa che nel frattempo (mentre cercava di fare denuncia del furto subito) si è beccato per lo scooter parcheggiato sul marciapiede (non c'era posto altrove). Se poi al nostro Mario succede pure di trovarsi, alle 4 del mattino, un ladro in casa (è capitato anche a me), e ancora niente risposte ("può installare un impianto di allarme, o fare un'assicurazione", ti senti dire quando fai denuncia) allora il senso di rabbia, di impotenza e di ingiustizia cresce oltre misura.
Da questa condizione di fondo, vissuta in prima o in seconda persona (se non è successo a te, è successo a un tuo parente o a un vicino di casa), il nostro Mario Rossi osserva le scelte del nostro sindaco e della sua giunta.
Mario dunque osserva che degli amministratori (ma anche alcuni deputati) esprimono rispetto e stima per gruppi che hanno occupato abusivamente edifici da mesi (o da anni), e li usano per organizzarci feste e concerti, decidendo arbitrariamente chi può entrare e chi no, e impedendo ai servizi sanitari e sociali di mettervi piede, ma esibendo le solite famiglie con i soliti bambini (che risultano contemporaneamente presenti in 2 o 3 stabili occupati) ogniqualvolta si avvicini un giornalista. Legge che politici e sindacalisti raccolgono firme contro un "divieto di dimora" (non una carcerazione, non un arresto domiciliare) per un leader antagonista che, tra un'occupazione e una manifestazione ha cercato di prendere a sprangate degli agenti di polizia. Impara che il Comune, dopo averlo fieramente negato per bocca del sindaco, ha effettivamente chiesto a Questura e Prefettura di rinviare gli sgomberi, e che gli assessori si scelgono i Centri Sociali come interlocutori politici, aprendo con loro trattative e chiedendo consigli su come gestire il problema casa. (Faccio notare che se per sua sfortuna Mario fosse pure un iscritto al PD, si sentirebbe doppiamente tradito, avendo oltretutto speso tempo per partecipare alle assemblee di Circolo e di Unione, poi alle Conferenze Programmatiche cittadine e provinciali, il tutto per scrivere un programma che resta in un cassetto, mentre la Giunta si fa dettare l'agenda amministrativa dai Collettivi).
E' così difficile immaginare lo stato d'animo di Mario? E' così incomprensibile il pensiero che lo attraversa e lo fa star male, che più o meno dice "le autorità proteggono chi si comporta male, e trascurano o addirittura maltrattano quelli che provano a comportarsi bene"? A quale scelta di voto (o di non voto) porteranno questi sentimenti e ragionamenti?
E ci vuole tanto a capire quello che Mario teme, ovvero che con questo atteggiamento lassista e complice, il Comune sta creando le condizioni per raccogliere a Bologna, da mezza Italia, soggetti che ritengono (e rivendicano) di avere diritto, in forza della loro mancanza di reddito e insieme della capacità di creare problemi di ordine pubblico, non solo al cibo, non solo alle cure sanitarie, ma anche ad una abitazione gratuita, e domani di chissà cos'altro?
D. La differenza tra carità e politica
Concludo con una riflessione sulla laicità della politica, che se vale per i cosiddetti "temi etici", vale anche per il resto. Il punto è che in molti, in questi giorni, hanno citato il papa e il vangelo per sostenere che lo scontro in atto sulle occupazioni è uno scontro tra "deboli" (e chi evangelicamente prende la loro parte) e "forti" (e chi farisaicamente usa la legge per perpetuare un'ingiustizia). E in sostanza per dire che la posizione "legalitaria" è gretta e meschina, e che la giustizia sostanziale viene prima del rispetto delle regole.
E' stato paradossale leggere, sui giornali e sui Social Media, persone fieramente atee accusare me ed altri cattolici di incoerenza e ipocrisia. Ed è stato preoccupante osservare come, magari in buona fede, assessori e parroci abbiano confuso il piano della carità con quello dell'amministrazione.
Se in parrocchia o alla Caritas è normale gestire una situazione di bisogno con qualche telefonata e una sistemazione di fortuna, in politica non funziona così. Perché laddove la carità individuale risponde al caso singolo con risorse personali e liberamente offerte, la politica ha bisogno di darsi criteri obiettivi e regole generali, dato che utilizza risorse collettive frutto di un prelievo non volontario. Ne consegue una profonda differenza, anche nei metodi di gestione e di affidamento dei servizi e degli appalti relativi ai servizi sociali, che nell'amministrazione richiedono una trasparenza e un'obiettività che invece nell'intervento caritativo sono normalmente sostituiti dallo zelo e dalle buone intenzioni. E ne consegue che la legalità, quando si amministra la cosa pubblica, è premessa indispensabile per qualsiasi ulteriore e successiva azione "di giustizia sostanziale".
In questa vicenda invece è stato evidente come spesso l'anelito ad estendere la carità individuale (e i suoi criteri) alla cosa pubblica produca effetti opposti alle intenzioni. Sia perché indebolisce quella piattaforma normativa (la famosa legalità formale) che in società multietniche e multiculturali si rivela l'unico possibile legame aggregante (basta guardare agli USA e alla Germania, dove la capacità di accoglienza e integrazione è fortemente legata alla capacità di far rispettare delle regole comuni). Sia perché se le istituzioni sono laiche, non sta in piedi che un pezzo di etica cristiana, staccata dal resto, venga eletta a criterio amministrativo per tutti, cristiani e non (quel che vale per il divorzio, vale anche per la carità). Sia perché questo alzare il dito (brandendo addirittura il vangelo!) e accusare di egoismo, ipocrisia e inumanità chi ritiene che la politica abbia una sua logica distinta da quella caritativa, tradisce l'antico riflesso moralista di chi si sente più puro e più buono, al punto da sentirsi chiamato a imporre agli altri la propria visione etica (perché più avanzata, più progressista, più colta, ecc).
Ma se vogliamo costruire una società realmente aperta ed inclusiva, ci serve il contrario di questo mix di buonismo lassista e presunzione moralista. Ci serve ascoltare i tanti Mario Rossi che vivono accanto a noi. Diversamente, li spingeremo nelle braccia di Salvini.
E, parlando di emergenza abitativa, non convinceremo nessun proprietario di immobili sfitti a darci (come amministrazione) in uso temporaneo il suo edificio per accogliere i veri senzatetto, perché un Comune che strizza l'occhio agli occupanti, rinvia gli sgomberi e prende in giro i proprietari (vedi via De Maria) non avrà mai la credibilità per affrontare e risolvere insieme ai suoi cittadini il problema di chi non ha una casa.
Un caro saluto, e alla prossima.
andreadepasquale.it