Bologna, 14 marzo 2013
Cari amici,
eccomi alla nota mensile sulla politica bolognese. Trovate le note precedenti sul mio sito. Rammento che per non ricevere questi messaggi è sufficiente chiedermi la cancellazione da questa lista, mentre se avete amici interessati segnalatemi la loro e-mail.
2 soli gli argomenti di questo mese (il primo corto, il secondo lungo e articolato):
1) CENTRO SPORTIVO DEL BFC A GRANAROLO: ASSEMBLEA PUBBLICA MARTEDì 26 MARZO ORE 21.00
2) IL PD DALLE PRIMARIE DI DICEMBRE ALLE POLITICHE DI FEBBRAIO: ANALISI DI UNA SCONFITTA.
2.1 - Il Partito e la Ditta
2.2 - Un capolavoro di ragioneria
2.3 - Esclusi e paracadutati
2.4 - Nell'interesse della collettività o di altro?
2.5 - La sconfitta: spiegazioni ed auto-assoluzioni
2.6 - Una comunicazione perfetta
2.7 - Con i "se..." non si fa la storia. Appunto.
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1) CENTRO SPORTIVO DEL BFC A GRANAROLO: ASSEMBLEA PUBBLICA MARTEDì 26 MARZO ORE 21.00
Innanzitutto desidero ringraziarvi per il sostegno all'appello "Stop al consumo di suolo - Invito alla coerenza". Siamo oltre le 150 adesioni, la nostra iniziativa è stata citata dalla stampa locale, e anche tra gli amministratori più avvertiti inizia a fare breccia il dubbio se si tratti di una operazione sostenibile, sul piano urbanistico ma anche politico.
Poiché alcuni firmatari mi hanno chiesto di essere tenuti al corrente degli sviluppi, li inserisco il questa lista, pronto a cancellarli su richiesta.
L'aggiornamento più importante riguarda l'Assemblea pubblica che stiamo organizzando per martedì 26 marzo, alle ore 21.00, presso il Circolo La Fattoria (via Pirandello 6) proprio su questo tema. Con l'aiuto di urbanisti ed esperti di pianificazione territoriale, ricostruiremo le dimensioni del progetto, lo strano percorso istituzionale con cui viene portato avanti, la serie di coincidenze che vedono intrecciarsi gli interessi di proprietari fondiari, costruttori, soci del Bologna e amministratori, e anche la scelta della Provincia di abdicare al suo ruolo istituzionale di ente ordinatore del territorio per farsi, nella vicenda, parte servile. Sarà quindi aperto il dibattito tra i presenti.
A questo link trovate il volantino di invito, che potete fare circolare. Abbiamo anche creato un evento su Facebook, che potete condividere. Vi aspetto numerosi.
Riassumo in poche righe i termini essenziali della questione: il progetto è di costruire nella campagna tra Granarolo e Quarto un insediamento che porterebbe al consumo di 225.000 mq di suolo agricolo, con la costruzione di 36.000 mq di superficie utile (pari a 400 appartamenti da 90 mq ciascuno) e l'impermeabilizzazione di 45.000 mq di territorio (pari a 9 campi di calcio completamente asfaltati). Tale complesso sostituirebbe l'attuale centro sportivo di Castedebole, ma il progetto non si occupa per nulla di questo abbandono, tanto che la procedura scelta è di scala comunale (come se interessasse solo Granarolo). Infine viene completamente ignorata la classificazione, fatta dal PTCP (il Piano Territoriale Provinciale del 2004) del centro sportivo del Bologna FC quale "Polo Funzionale". Come potete capire, c'è materia per una bella discussione.
2) IL PD DALLE PRIMARIE DI DICEMBRE ALLE POLITICHE DI FEBBRAIO: ANALISI DI UNA SCONFITTA.
Il risultato delle elezioni politiche ha messo l'Italia davanti ad una situazione di stallo politico e il Partito Democratico davanti ad un giudizio severo, di insufficienza, da parte degli italiani. Nonostante la pessima prova offerta da Berlusconi e da Bossi, e pur davanti ad un forte calo di Lega e PDL, il principale partito dello schieramento opposto non è riuscito a proporsi come alternativa credibile, come forza di rinnovamento in grado di guadagnare la fiducia degli elettori, fermandosi ad un consenso che non va oltre un quarto degli italiani. Grillo e il suo Movimento 5 Stelle ne ha approfittato, come si è visto.
Rinviando ad una prossima newsletter la riflessione sul fenomeno Grillo, mi concentro qui sulla vicenda del Partito a cui sono iscritto e dentro al quale cerco da anni (dalla fondazione del 2007) di portare un granello in più di obiettività e di coerenza.
2.1 - Il Partito e la Ditta
La mia idea è che la sentenza delle urne di febbraio è stata diretta e logica conseguenza dell'evoluzione impressa al Partito dalla vittoria di Pierluigi Bersani prima al congresso del 2009, poi alle primarie di novembre e dicembre 2012 (sia quelle per il premier, sia quelle pero parlamentari), evoluzione ben riassunta da due espressioni coniate e spese ripetutamente in questi mesi: "La Ditta" e "l'Usato Sicuro".
Per argomentare questa idea ripercorro l'intervento che ho fatto martedì scorso nella Direzione del PD, con qualche aggiunta che là era impossibile per le ristrettezze dei tempi.
Con Bersani ha vinto, prima al congresso poi alle primarie, un modello di partito identitario, preoccupato di rimarcare i confini, di essere fedele alle sue radici, di parlare "ai nostri". Nei confronti pubblici tra "renziani" e "bersaniani" (ne ho fatti almeno 6, forse 7) ricordo con nettezza la linea di questi ultimi: "Attenti a non snaturarci, attenti alle infiltrazioni della destra. E' meno importante vincere e governare, è più importante rimanere noi stessi". La paura dell'OPA ostile ha funzionato a meraviglia a dicembre, come la grande capacità di manovra e di controllo del Partito sul proprio elettorato fedele. Ma quelli che sono risultati punti di forza alle primarie (e alla Parlamentarie), si sono rivelati, alle "secondarie" (le elezioni vere), una gabbia, un impedimento ad attirare nuovi consensi, ad uscire dal recinto.
Per spiegarmi, ripasserò velocemente la strategia (a suo modo esemplare) che ho visto mettere in campo a dicembre per la scelta dei candidati a Camera e Senato.
2.2 - Un capolavoro di ragioneria
Intanto la scelta del momento: l'ultima domenica di dicembre, in modo da lasciare ai candidati ben 7 giorni per farsi conoscere, con Natale nel mezzo. Un'evidente mossa ad escludere gli "outsider", e a favorire figure integrate nell'apparato, in grado di contare sulla mobilitazione dei Circoli. Poi l'opaco rito delle firme: solo 3 giorni per raccoglierne almeno 500 a candidato, con strani traffici di moduli già firmati (ma in bianco, senza i dati del candidato) e strani fenomeni di candidati "benedetti" con firme piovute da territori dove erano perfettamente sconosciuti (questi stessi candidati risulteranno poi perfettamente funzionali a dividere il bacino elettorale "renziano", col risultato di disperdere i voti ed evitare l'ingresso in posizione eleggibile di tutti i candidati di quell'area).
Il risultato delle "parlamentarie" del 30 dicembre è stato davvero un capolavoro di ragioneria elettorale: il popolo ha incredibilmente scelto e consacrato esattamente quei 7 candidati che la "ditta" aveva interesse a collocare in parlamento. Primo arrivato e autentico trionfatore della corrida, Andrea De Maria, che aveva già mostrato i muscoli raccogliendo oltre 1.000 firme (pare al netto di qualche generosa concessione ai concorrenti più in affanno) nel tempo in cui gli altri candidati faticavano a raggiungere soglia 500. Il semplice fatto che la base elettorale abbia beatificato (con oltre 10.000 preferenze) in lui l'archetipo di funzionario di partito, che dalla tenera età non è vissuto di altro che di incarichi politici (assessore, sindaco, consigliere provinciale, segretario di partito...) era già un messaggio chiaro alla città e alla nazione sul "rinnovamento" in testa al PD. Le straordinarie prove di ubiquità del soggetto (capace di partecipare ogni giorno a dozzine di mercati, pranzi, incontri, cene, feste e dibattiti) unite alla virtù opposta esibita in materia di stipendi e rimborsi (ogni volta che si mettono sotto la lente i conti del PD bolognese, lui risulta a carico del partito nazionale, e viceversa...) hanno fatto il resto. Dal trionfo del Partito nella gara interna, al flop in quella esterna. C'è da stupirsi?
2.3 - Esclusi e paracadutati
Non potrò dimenticare facilmente lo spettacolo vissuto domenica 30 dicembre sera in via Rivani, sede provinciale del PD: l'autentica e sincera esultanza con cui alcuni giovani rampanti del partito (senza mestiere proprio) festeggiavano l'esclusione dagli eleggibili di Salvatore Vassallo, figura indipendente (con un mestiere proprio) ma soprattutto autore dei più ragionati e concreti progetti di riforma prodotti dal PD in materia di legge elettorale, di riduzione dei parlamentari, di trasparenza dei costi della politica. La sua eliminazione dal Parlamento era vissuta come una liberazione, come un pericolo scampato. Salvo poi accorgersi, di lì a qualche settimana, che diventava difficile, con una lista farcita di dipendenti dalla politica (molti dei quali avranno difficoltà non dico a scrivere, ma anche solo a leggere un testo legislativo) fare una campagna elettorale credibile sui temi delle riforme, dei costi della politica, del superamento della Casta.
Capolavoro finale, ciliegina sulle liste, la vicenda dei "catapultati", ovvero di quelle figure così importanti, così essenziali, così imperdibili per il PD e per l'Italia da meritare di essere piazzati in lista davanti ai candidati scelti con le primarie, ma - per una sorta di pudore geografico - in territori il più possibile lontani da quelli in cui erano conosciuti. Faccio notare che a questa operazione di "ricollocamento distribuito" (una forma di socializzazione del danno, da spargere nelle varie regioni come una ondata di profughi), sono state programmaticamente dedicate oltre 3 settimane, ovvero il triplo del tempo concesso ai candidati alle primarie: 7 giorni per l'operazione "scegli il tuo candidato", e 25 per l'operazione "beccati il tuo paracadutato".
Con questa bella dote dunque entriamo baldanzosi in campagna elettorale, nella quale replichiamo tre atteggiamenti che ci fanno male e ci fanno perdere. Il primo è la fatica a vederci (come dice Ricolfi) con gli occhi degli elettori, l'abitudine a raccontarcela tra noi e la conseguente difficoltà a dirci la verità. Il secondo è quello, indisponente, di chi pensa di avere già vinto le elezioni, anzi di avere acquisito il diritto a governare ("è il nostro turno", "tocca a noi"), quasi si fosse fatta la nostra fila e di trattasse ora di incassare un consenso elettorale a noi dovuto per demerito degli avversari (vi ricordate in proposito le discussioni su chi avrebbe fatto il Ministro e chi il Sottosegretario? E il drammone di cosa avrebbero fatto Errani, Peri e gli altri membri della giunta regionale, col cuore strappato tra la dedizione al duro lavoro in regione e la chiamata a più alte responsabilità e più duri sacrifici nella capitale?) Il terzo problema infine è, a mio giudizio, la fatica a ridefinire, a noi stessi e agli elettori, cosa sia oggi per noi l'interesse pubblico. Su questo provo a spiegarmi meglio.
2.4 - Nell'interesse della collettività o di altro?
Nel PD si dà per scontato che le nostre ricette tradizionali, le proposte che piacciono al nostro elettorato storico, le prassi invalse nelle nostre amministrazioni siano di per sé soluzioni buone per l'interesse collettivo. E non ci rendiamo conto che chi ci guarda ha spesso l'impressione opposta, ovvero che quelle soluzioni siano innanzitutto orientate a tutelare noi stessi, a garantire un sistema di scambi tutto interno al nostro mondo, a mandare avanti insomma la famosa "ditta". E che il "pubblico interesse" sia spesso una foglia di fico, uno slogan vuoto. Faccio alcuni esempi locali, su cui Grillo ha facilmente mietuto consensi.
Prendiamo le infrastrutture di trasporto. Dopo la vicenda Civis, stiamo proseguendo sulla stessa linea con il People Mover: nessun confronto sui numeri, percorso blindato, identici gli attori economici interessati. "Del People Mover abbiamo bisogno come dell'aria" afferma anche in questi giorni il segretario Raffaele Donini, per mettere l'opera al riparo dall'ondata grillina. Effettivamente c'è qualcuno che ne ha bisogno come l'aria: forse però non è la città, bensì i bilanci di qualche azienda cooperativa locale. E' pubblico interesse?
Prendiamo l'urbanistica. Dopo esserci riempiti la bocca di riqualificazione urbana e stop al consumo di suolo, difendiamo anzi promuoviamo operazioni totalmente irrazionali, dal punto di vista del pubblico interesse, come il Centro Sportivo del Bologna a Granarolo (o l'Art and Science Center a Marzabotto, e molti altri ancora).
Prendiamo i "global service": continuiamo a confezionare gare per mega appalti omnicomprensivi, con dentro di tutto, dalla raccolta rifiuti alla manutenzione dei lampioni, in modo che a partecipare possa esserci una sola azienda, anziché spacchettare le attività e metterle a bando con una vera possibilità di concorrenza, su un vero mercato. E' pubblico interesse?
E potremmo parlare di mense scolastiche, di cultura e spettacolo, e molto altro ancora, a comporre un quadro lontanissimo dall'immagine di una forza capace di rinnovamento, di cambiamento, davvero preoccupata del bene comune.
2.5 - La sconfitta: spiegazioni ed auto-assoluzioni
Poi sono arrivati i risultati delle urne, per molti una doccia gelata, per altri meno. E sono partite le analisi, alcune obiettive, altre di comodo, mirate ancora una volta a giustificarci, a dare la colpa agli elettori che "non ci hanno capito". Tra le spiegazioni più ricorrenti della sconfitta ce ne sono 3 che molti dei miei compagni si raccontano volentieri.
1) "Abbiamo perso perché dovevamo stare più a sinistra". Chi dice questo non vuole leggere i risultati. Il centro di Monti sarà andato anche malino, ma ha preso il 10%. A sinistra, avremmo potuto al massimo erodere il 2% scarso di Ingroia. Sarebbe stata una strategia vincente?
2) "Abbiamo pagato il sostegno a Monti". Forse abbiamo dimenticato la famosa lettera dell'Unione Europea del 4 agosto 2011, che per mesi abbiamo utilizzato come capo d'accusa contro Berlusconi, e che imponeva un percorso duro, un lavoro sporco, che abbiamo volentieri delegato a Monti. Dire ora che abbiamo pagato il sostegno a Monti equivale a dire che abbiamo pagato l'appartenenza all'area Euro e alla solvibilità del debito. Ha dunque ragione Grillo a proporre l'uscita dall'Euro? Ha forse ragione Berlusconi a dire che dello "spread" possiamo infischiarcene? Se diciamo di essere alternativi al populismo di Grillo e alle favole di Berlusconi, non possiamo pentirci di avere sostenuto l'operazione di salvataggio condotta, necessariamente con scelte drastiche, dolorose e poco eque, da Monti. Dire oggi che abbiamo sbagliato significa dichiararsi opportunisti e inattendibili.
3) "Abbiamo perso perché abbiamo sbagliato comunicazione". Chi dice questo, pensa che la comunicazione sia una tecnica che si impara e si applica, un vestito da indossare, mentre in politica (e in buona parte della vita) la comunicazione è diretta emanazione di quello che si è. In questo senso la nostra comunicazione è stata perfetta.
2.6 - Una comunicazione perfetta
Facciamo alcuni esempi. Chiedere "la giustificazione" agli elettori del secondo turno alle primarie, e respingerne il 95%, è stato un fatto di una potenza comunicativa incredibile. Fare uscire trionfanti dalle "parlamentarie" campioni di innovazione come Bindi, Fassina, Marini, Finocchiaro, ha pure una portata comunicativa formidabile. Livia Turco che parla a Radio 24 del suo ruolo di dirigente politico come di "un lavoro durissimo e impegnativo" è un messaggio forte e chiaro, pari a quello di Bersani quando dice "Se qualcuno ci tocca su Monte Paschi, lo sbraniamo". E anche qui da noi, la scelta dei candidati nella lista del PD di non rispondere nulla (proprio nulla, nemmeno un "ci devo pensare") all'Appello sul consumo di suolo, dà un messaggio chiarissimo, come quello di Vasco Errani che dimostra quanto ha capito dei risultati elettorali affermando: "Dobbiamo continuare nell'innovazione che già stiamo facendo". Già, continuare...
La verità appunto è che si comunica quello che si è. Le recite non funzionano. Noi abbiamo comunicato benissimo quello che siamo, e gli elettori hanno capito benissimo, e votato di conseguenza. Punto.
2.7 - Con i "se..." non si fa la storia. Appunto.
Il 25 febbraio pomeriggio, man mano che si chiarivano i risultati, una domanda ha attraversato l'intero corpo elettorale italiano, non solo del PD, ma di tutti. Cosa sarebbe accaduto se al posto di Bersani ci fosse stato Renzi? La maggioranza di italiani (di tutti gli orientamenti politici) è propensa a ritenere che non solo il risultato, ma tutto il quadro sarebbe stato profondamente diverso: Berlusconi, che in Bersani ha ritrovato l'avversario ideale, non sarebbe probabilmente risceso in campo, e se lo avesse fatto avrebbe faticato molto di più; Monti non avrebbe sentito la necessità fare una propria lista per presidiare la linea del rigore dei conti; e una quota consistente dei consensi confluiti su Grillo avrebbe avuto un'alternativa competitiva quanto a rottura col passato. Tra i dirigenti PD prevale invece la linea che "la storia non si fa con i se...", e che quindi questo discorso è inconsistente, una speculazione ipotetica e inutile.
D'accordo, stiamo ai fatti. Il fatto oggettivo che abbiamo davanti è la dissoluzione, in poche settimane, di un vantaggio elettorale di circa 10 punti, di cui il PD era accreditato da tutti i sondaggi. In una organizzazione sana, quando la strategia portata avanti e fino in fondo dal gruppo dirigente si dimostra fallimentare, quel gruppo dirigente se ne assume la responsabilità. Non la diluisce nel frullatore delle primarie, quasi che il voto del 2 dicembre abbia azzerato le differenti strategie e livellato le diverse responsabilità. C'è una linea che ha vinto nel partito e ha perso nel paese. Perché ha scelto di parlare al partito e non al paese. E questo è un fatto accaduto, non una ipotesi. Sarebbe il caso, se ci teniamo a questo partito, di trarne qualche conseguenza.
Vedremo nelle prossime settimane se questa sconfitta ha insegnato qualcosa.
Per ora vi saluto e spero di vedervi numerosi il 26 prossimo alla Fattoria.
Andrea De Pasquale
www.andreadepasquale.it