Comincio col dire che sono molto grato a questi amici per questa discussione, perché c’è appunto - a proposito di precisazioni terminologiche - da correggere un errore. Si parla del confronto tra laici e cattolici. Ma c’è un laicato cattolico che è vastissimo e molto vario nella sua composizione, non dico di fede, ma certamente per esempio nelle scelte e nelle posizioni politiche. Ed esiste un laicato di non credenti che anch’esso è molto differente: vi sono non credenti che la pensano in modi molto diversi sia sulla politica, sia su tante altre questioni che riguardano esempio la vita umana.
Quindi questa schematizzazione non corrisponde alla realtà, è piuttosto una creazione di comodo, che non corrisponde al vero. Non è vero che tutti i cattolici la pensano come quelli che hanno fatto il Family Day, come non tutti i non credenti erano nell’altra piazza, dove si parlava di orgoglio laico.
Dogmatismo e pensiero critico
Qui sorge subito un tema ulteriore: non solo quello che riguarda la parola laico e cattolico, che io penso appunto che debba essere piuttosto messa in termini di credenti e non credenti, ma sorge il tema del dogmatismo dei non credenti. Ci sono molti non credenti che sono assolutamente dogmatici, quando parliamo di fanatismi ideologici abbiamo forme di supposti pensieri razionali che hanno negato se stessi e si sono trasformate in forme di dogmatismo assoluto. Siccome qui è stato detto – citando don Milani – che non bisogna fidarsi dei comunisti e nei preti, posso dire che non tutti i comunisti erano uguali, anche allora, ci si poteva fidare di più dei comunisti non dogmatici che di quelli dogmatici. Molti che si chiamavano comunisti in realtà avevano rinnegato il pensiero critico. Non vorrei offendere nessuno dei presenti, ma quando ho sentito il pontefice dire che è fallito sia il marxismo che il capitalismo, ha messo insieme due cose che sono distinte, perché questo povero marxismo non si è identificato in un sistema determinato, che è fallito, e Marx è un pensatore che almeno, come diceva un altro pontefice, aveva posto domande giuste (Giovanni Paolo II)
Ci sono dunque molti non credenti che sono dogmatici, come anche molti credenti, che sposano una interpretazione integralista della propria fede. E il problema nasce di qui, per tutti, credenti e non credenti. Il vero problema è la lettura, l’interpretazione del pensiero, perché è un’esperienza storica che dice che il confronto stesso tra credenti e non credenti non può neanche cominciare se ciascuno si barrica dietro una verità assoluta. Io ho trovato molto bella l’obiezione che uno studioso cattolico ha fatto al teologo Ratzinger quando gli ha detto “bisogna vedere se noi cattolici valorizziamo la verità o la carità”. Perché nella misura in cui questa verità si trasformasse in una esclusione di coloro che questa verità non ce l’hanno, naturalmente la carità verrebbe in secondo piano, o rischierebbe di annullarsi.
Il punto è che queste scelte politiche, sia che si dichiarino ispirate dalla fede, sia che si dichiarino ispirate da una presunta ragione, non si possono fare se sia la ragione sia la fede vengono vissute dogmaticamente. L’esperienza storica lo dimostra. Recentemente è caduto uno Stato (e che Stato, enorme, una delle due grandi potenze mondiali), perché aveva dato una interpretazione inaccettabile di un pensiero che all’origine era critico, trasformandolo in un pensiero assolutamente dogmatico. E con un pensiero dogmatico non si può governare. In Russia il tentativo di ridurre tutti ad una verità unica non è riuscito, perché non poteva riuscire, perché ovviamente c’erano molti che a quella verità non potevano aderire in virtù della loro fede religiosa o del loro pensiero critico.
Ma allo stesso modo accade quando, da un punto di vista religioso, si interpreta la fede come qualcosa che stabilisce una norma assoluta. Allora incominciano i guai e le confusioni del linguaggio, che derivano io credo da una lettura che in questo caso non si può imputare ai non credenti… perché non credo che la Bindi o Prodi siano poco credenti. Ma credo che venga da una lettura (qui non credo c’entri l’autorità pontificia, ma piuttosto alcune componenti della gerarchia italiana) ha dato del rapporto tra comando della gerarchia e legislazione. Nel senso non di criticare una legge, perché questo è certamente legittimo, vorrei vedere…, ma il fatto di sostenere – e qui la responsabilità mi pare sia non soltanto locale – che se il credente cattolico si discosta nella sua azione pubblica dal convincimento di fede nella interpretazione fornita da chi ha l’autorità per farlo, allora sarebbe addirittura da considerarsi estraneo alla comunità, qualcuno che si mette fuori, cade sotto l’interdetto addirittura della scomunica.
Era meno grave quando questo colpì chi votava per i comunisti perché in maggioranza non erano credenti, ma per coloro che erano credenti e comunisti fu un dramma pauroso. E qui c’è un problema delicatissimo per quanto riguarda la scelta politica. Avemmo un problema simile – Giancarla Codrignani lo ricorda – quando si trattò di decider sull’interruzione volontaria di gravidanza, se lo stato dovesse o no assistere – perché questo è l’oggetto della legge – le donne che non si sentivano di portare a termine la gravidanza, e quindi se considerare o no questa scelta un reato. Posto che questa scelta fosse possibile, limitandola entro termini circoscritti, se lo stato dovesse dare assistenza, pur riconoscendo il diritto all’obiezione di coscienza.
L’obiezione di coscienza naturalmente è stata garantita, ma se dall’obiezione di coscienza si passa all’invito alla disobbedienza ad una legge, questa non è più obiezione. Se ad esempio un medico cattolico rifiutasse la sua assistenza, in una determinata situazione, a una donna che intende usare quella legge, mancando qualsiasi medico non obiettore, io credo che qui si pongano problemi delicatissimi. Ma ancora di più se questo comando deve intervenire per il legislatore: può il legislatore cattolico essere atto alla funzione politica, che in una società composita non può che essere una funzione di mediazione? Questo è un problema delicatissimo, che non riguarda più l’esecuzione della legge, ma la formazione della legge. Perché sulla base di questo principio il politico cattolico non può che obbedire a un ordine. Ma se questo ordine non fosse condiviso da parti consistenti della comunità che egli ha il dovere di governare, come si deve comportare? Essendo un politico dovrebbe poter mediare, ma la mediazione gli è impedita, perché deve obbedire… Ecco allora che noi vediamo qui i rischi non della fede o della ragione, ma di una interpretazione delle stesse in senso dogmatico, integrista.
E’ vero anche quello che diceva Padre Garuti: il richiamo alla legge naturale, che interviene ad un certo punto per giustificare una certa interpretazione data da una autorità, talvolta ecclesiale, ma potrebbe essere anche altro, non può essere accettato come valido dogmaticamente. Perché, diceva Bobbio in un suo testo famoso, ci sono 22 interpretazioni della legge naturale. Almeno due: il creazionista vede nella natura l’espressione di un ordine divino, mentre chi la interpreta darwinianamente la interpreta come l’auto-organizzazione della natura di cui fa parte anche l’uomo.
Quindi non può essere il richiamo alla natura a sciogliere il problema. Quello che può scioglierlo è il richiamo, tanto a credente quanto al non credente, alla capacità di interpretare criticamente la propria fede o il proprio convincimento razionale in modo da poter comunicare con l’altro, sennò si sfascia tutto.
Si sfascia non uno stato – che può anche accadere – ma una comunità. Perché quando una parte della comunità, quale che ne sia il motivo, pensa che le regole della convivenza, quindi la legislazione, debba obbedire ad una sola norma, in quel momento stesso l’altra parte, che si sente esclusa, entra in fermento, non si riconosce più, e chiaramente incomincia – e qualche sintomo già si avverte, in qualche segno anche un po’ grossolano, brutale, stupido – la guerra civile. L’escluso, anche in modo intollerabile e condannabile, incomincia ad entrare in uno stato d’animo di chi sente colpito, offeso nella sua dignità di persona umana.
Contro il relativismo etico: Ratzinger e Gramsci
Quindi io credo che questo non sia esaustivo, perché apre una serie di problemi: uno di questo è quello che è stato espresso da un teologo – attualmente pontefice – quello del relativismo etico. Ma non è il solo: chi leggesse con attenzione l’opera di Gramsci lo ritroverebbe. Gramsci si considera uno storicista assoluto: era la cultura della sua giovinezza, cioè del gentilianesimo, il neoidealismo italiano di Croce, influenzato dallo storicismo della filosofia tedesca: tutto è storia, l’uomo è storia, le comunità sono storia, e Gramsci era di questa tendenza. Del Noce invece, cattolico, forzerà Gramsci, che essendo antipositivista era anche volontarista, perché i rivoluzionari sono assertori della volontà, e ne fa un gentiliano, quasi un sostenitore dell’atto puro (l’atto fondativo della mente, che lo porterà dove lo porterà).
Ma questa interpretazione è una forzatura, anche se in gioventù si era interessato, era uscito dal gentilianesimo e si considerava uno storicista, ma contemporaneamente ragiona sul fatto che tanti che si dichiarano storicisti o materialisti storici o aderenti al marxismo compiono atti innominabili, di tradimento… e allora, dice, guardate che il fatto di avere scoperto col nostro pensiero critico che molte verità che ci erano state insegnate come verità assolute non erano vere, non vuol dire che noi non abbiamo dei principi. Questo Gramsci è lo stesso che come storicista critica la legge morale kantiana , l’imperativo categorico: “agisci come se la tua azione avesse un valore universale”: Gramsci dice no, anche l’assassino quando sgozza la moglie pensa che tutti, in quelle medesime circostanze, dovrebbero sgozzare la moglie. Quindi non può essere questa la morale.
Padre Garuti diceva a proposito delle classi miste, ma possiamo anche ricordare la questione della vaccinazione, a proposito delle leggi di natura e di come i principi sono storici. La vaccinazione, nello stato Vaticano, fu introdotta da un inglese per curare il vaiolo, e veniva considerata contraria alla legge naturale e ai principi di fede perché non si poteva mescolare il sangue umano con quello di una vacca (si chiama vaccino per quello). Quindi ciò che in una stagione storica sembra un delitto, in un’altra non lo è più.
E allora siamo al relativismo etico, si chiede Gramsci... e risponde no: ogni realtà storica deve avere dei principi etici – e la sua vita lo testimonia, perché quando la sua mamma vuole chiedere la grazia per lui, le scrive una lettera indignata per dire “non osare”, perché questo sarebbe contrario alla sua dignità di persona; e infatti in passi poco citati Gramsci si sforza di spiegare quali sono secondo lui le leggi per un certo periodo storico in una morale non relativista, e individua dei criteri curiosi ma molto interessanti: la durata della norma morale, la non contraddittorietà (per cui non deve esserci una doppia verità, cioè che vada bene una cosa e anche il suo opposto, perché allora si tratta di una morale fasulla), e un terzo criterio è quello della esemplarità: può questa norma suggerire un contegno che possa essere considerato storicamente esemplare? E per esemplare cosa ritiene? Lui ritiene quello che possa aiutare l’umanità ad essere meno infelice. Meno ingiustizia, meno sofferenza nel mondo: questo è l’ideale a cui tendere.
Io credo quindi che il problema del relativismo esista, e quando si mette tra parentesi e si dice “ abbiamo imparato che tutto è relativo”, e anche in fisica esiste il principio della relatività, ovviamente che non vuol dire che tutto è relativo, vuol dire un’altra cosa. Si dice qualcosa che può portare al peggio, per esempio al fatto che si può uccidere l’altro, con o senza processo. La consideriamo o no una norma assoluta quella per cui non si può uccidere? Né per il credente né per il non credente è accettabile, perché anche senza ottemperare a nessuna legge data una volta per tutte io posso capire con la mia ragione critica che se io mi faccio arbitro della vita dell’altro questo può portare allo sconvolgimento della vita civile.
Ciò che è importante dunque è che ciascuna posizione, sia del credente sia del non credente riguardo la scelta politica, trovi un punto di congiunzione in quella che può essere – ma è difficilissimo da sperimentare – la razionalità critica che volta per volta può essere usata e usata in comune, come un linguaggio che si impara a usare in comune. Non soltanto il dialogo della tolleranza – parola molto bella, ma non sufficiente – perché può e deve trasformarsi in reciproca comprensione se si adopera un metro comune di giudizio, e questo metro comune può essere la comune capacità razionale e critica, che consente di vedere ciascun problema, che di volta in volta devi risolvere, da tutti i punti di vista.
Politica, fede, cinismo
Scusate se faccio un esempio personale. Avemmo con l’attuale presidente Napolitano – quando eravamo entrambi dirigenti del Partito Comunista – una discussione molto interessante per cui io dicevo che bisognava stare attenti, perché come Gramsci aveva detto che ci sono periodi in cui la fede politica era sconfitta (pensiamo al fascismo), dicevo che bisogna fare molta attenzione perché se dietro ai convincimenti politici non c’è anche una fede razionale (fede nella giustizia, fede nel progresso), è molto difficile che si tenga per fermo in certe situazioni e circostanze – non soltanto la guerra e la persecuzione – ma anche nella vita normale, anche nelle battaglie politiche normali: e parlo dell’idealità, non solo quella che riguarda il futuro, ma anche il presente. Cosa giustifica che io potendo fare i soldi non li faccio perché scelgo di fare il sacerdote (come ha scelto Padre Garuti), oppure di fare un lavoro di organizzatore sindacale, dove magari c’è tutto da rimetterci e niente da guadagnare, ma insomma che cosa mi muove se non un convincimento etico, morale, una fede razionale, che può essere sbagliata ma non per questo è meno decorosa? Mi si obiettava da Napolitano che la politica è cosa diversa dalla fede, ma la politica senza convincimenti profondi non sarebbe stata possibile, anche per Napolitano.
Dunque io credo che sia molto vero che questo scadimento dozzinale della polemica nasce dal fatto che si è sospesa o ignorata la necessità di quella cosa che Gramsci chiamava riforma intellettuale e morale. Se questa parte della politica – si tratti di credenti o non credenti – non viene più messa in discussione, se la discussione politica diventa tattica o mercato politico, e quello che c’è dietro – siccome non si vede – noi lo mettiamo in parentesi, succede un pasticcio. Io ricordo quanta ironia a un certo punto, anche nel vecchio partito comunista, facevano intorno a una formulazione a proposito del rapporto tra politica e principi morali (pensate come perdevamo il tempo allora…) per arrivare a una frasetta come questa: “si può arrivare a convincimenti socialisti anche a partire da una fede sinceramente vissuta”. Vedo meno che si possa arrivare da una fede socialista sinceramente vissuta, a una adesione alla società come è. Perché la fede vissuta porta inevitabilmente verso la causa della giustizia e della eguale dignità umana, c’è poco da dire, mentre una grande parte della politica di oggi dice: beh, cosa ci vuoi fare, così va il mondo, così è sempre andato e così andrà sempre, i poveri e i ricchi ci sono sempre stati… ma ovviamente io, che sto parlando davanti all’immagine di un Cristo in croce (il quadro di sfondo alla sala del Baraccano, ndr), chi ha abbracciato una religione come quella cristiana con sincerità, che si fonda su questa meravigliosa idea di un Dio che si fa uomo e che sceglie di soffrire e offrire questa sua sofferenza per la redenzione degli uomini... poi tutta questa redenzione si riassume nel fatto che, dopo tutte le conquiste tecnologiche, l’80% del genere umano muore di fame o di sete. E’ chiaro che una coscienza religiosa sinceramente vissuta difficilmente apprezza di mantenere le cose nello stato in cui sono.
Non mi pare quindi una perdita di tempo discutere del fondamento delle scelte politiche.
Non c’è nessuna scelta politica che non abbia dietro una sostanza etica: può essere una sostanza ragionevole, dogmatica, ma non può non esserci. L’idea che lo stesso Machiavelli abbia pensato la politica come sganciata dall’etica è di chi non l’ha letto, perché in realtà l’idea di Machiavelli è quella della distinzione della politica dai ceppi e dai vincoli di un pensiero dogmaticamente assunto, ma non ai fini del nulla, o del puro e semplice potere, ma ai fini dell’ordinato reggimento dello stato, dell’armonia sociale. Machiavelli inventa la politica ma non come puro e semplice soddisfacimento delle voglie del potere, senza principi. questo è uno stravolgimento della sua opera.
Quindi, rispondendo alla domande che ci sono state rivolte in questo volantino: esiste la possibilità di comprensione reciproca, credo di sì, esiste la possibilità di un percorso critico e di un progetto etico comune, penso come ho detto di sì, la politica può prescindere da questa fatica o ne ha assoluto bisogno, io dico: non può prescindere da questa fatica, ne ha assoluto bisogno. Anche la delegittimazione della politica di cui si parla tanto in questi giorni, non discende dal nulla, ma da una politica concepita come puro esercizio di una tecnica e che ha dimenticato i suoi doveri di scegliere bene le proprie motivazioni etiche e le proprie ragioni.
(considerazioni finali, dopo gli interventi)
La fede la intendo come continua ricerca, come lotta, come scelta in una condizione di dubbio, dove è appunto la fiducia, la speranza nella possibilità di un mondo migliore che mi muove. Anche la fede religiosa la vedo così, non uno stare fermi nella propria certezza, ma un andare sempre in cerca, e in lotta per qualcosa di nuovo, che oggi non c’è ma che potrà esserci. E il grande fermento presente nel mondo cattolico ne è la prova. Sono d’accordo poi su un fatto: il pensiero critico non è mai stato laicista, non c’entra con il laicismo.