Bologna, 16 maggio 2013.
Cari amici,
eccomi alla nota mensile sulla politica bolognese. Trovate le note precedenti sul mio sito. Rammento che per non ricevere questi messaggi è sufficiente chiedermi la cancellazione da questa lista, mentre se avete amici interessati segnalatemi la loro e-mail.
3 gli argomenti di questa edizione:
1) IL REFERENDUM SULLE SCUOLE PARITARIE.
2) POLITICA, MESTIERE E LIBERTA'.
3) QUALE FUTURO PER IL PD? 3 DOMANDE...
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1) IL REFERENDUM SULLE SCUOLE PARITARIE
Domenica 26 maggio i cittadini bolognesi sono invitati ad esprimersi sul mantenimento o meno del contributo del Comune alle scuole paritarie di infanzia a gestione privata. Votare A significa chiederne l'abolizione, votare B significa difendere la collaborazione pubblico-privato funzionante a Bologna dal 1995.
In realtà il voto ha assunto un significato politico che va oltre il merito specifico ed i confini locali, e che riguarda la definizione di servizio pubblico, il ruolo delle istituzioni e dei privati, i criteri di etica ed efficienza della spesa pubblica. Temi che costituiscono per le forze progressiste (in particolare per il PD) una occasione preziosa per chiarire la propria vocazione, o in senso riformista, dove lo Stato è aperto ai contributi della società civile, ed esercita soprattutto funzioni di indirizzo e controllo, oppure al contrario in senso statalista, dove l'ente pubblico è gestore diretto ed esclusivo dei servizi, faticando di conseguenza ad esserne il controllore, e così rinunciando all'enorme patrimonio di creatività e proposta offerto dai corpi intermedi (associazionismo, volontariato, cooperazione, famiglie, imprese, ecc.)
Personalmente credo al valore pubblico dell'istruzione, e per questo sono decisamente schierato per la scelta B. Condivido le ragioni espresse dal comitato Referendum Bologna (http://www.referendumbologna.it) e dal Comune di Bologna, che ha giustamente scelto di prendere posizione (dato che i promotori del referendum intendono demolire un tassello fondamentale del modello amministrativo bolognese, addirittura accusando il Comune di andare contro la Costituzione, non si capisce perché il sindaco Merola avrebbe dovuto lasciarsi prendere a ceffoni senza reagire...)
Cerco di motivare la mia posizione, invitando anche i tanti amici impegnati nella scuola a riflettere bene su quale delle due scelte tuteli davvero la natura pubblica del servizio scolastico (i promotori della scelta A pensano che le scuole private debbano essere lasciate libere di fare ciò che vogliono, interrompendo il rapporto di convenzione con il Comune), e rimandando a fonti più documentate ed autorevoli per approfondimenti (vedi in fondo).
In primo luogo è utile capire come il Comune di Bologna sia, in Italia e in Emilia Romagna, quello più impegnato (anzi, sbilanciato) nel gestire direttamente le scuole dell'infanzia: http://www.comune.bologna.it/news/come-fatta-la-scuola-dell-infanzia-bologna
Per intenderci, mentre a Bologna il Comune gestisce direttamente il 60% dell'offerta scolastica dell'infanzia, in città storicamente amministrate dalla sinistra, come Reggio Emilia, Ravenna, Ferrara, queste percentuali sono del 33, 28 e 26% (circa la metà). Specularmente, la quota di servizio gestito mediante privati convenzionati, che a Bologna è del 21%, in queste città è del 44, 53 e 60% (tra il doppio e il triplo).
In secondo luogo, c'è a mio giudizio un problema non solo di efficienza, ma anche di etica della spesa pubblica. Da cittadino e contribuente (come piccola impresa oltre il 50% del nostro fatturato va allo Stato), non capisco perché il denaro collettivo (frutto del prelievo fiscale, ovvero di sacrifici e di sudore dei lavoratori) debba essere monopolio di una gestione pubblicistica. Se una diversa organizzazione (e motivazione) dell'attività educativa e didattica ottiene risultati equivalenti (o addirittura migliori, almeno in termini di flessibilità degli orari) con costi inferiori, perché dobbiamo sprecare risorse, quando con lo stesso denaro, affidato a gestioni più razionali ed efficienti, possiamo rispondere ai bisogni di molti più cittadini?
Sono convinto che si debba premiare il merito ovunque, anche nella scuola. E penso che l'ente pubblico abbia primariamente il compito di fare l'arbitro, e quindi di indirizzare e verificare la qualità del servizio educativo offerto ai cittadini (sia esso offerto da strutture pubbliche, oppure private), senza schierarsi pregiudizialmente a favore di un gestore piuttosto che di un altro. Molti invece pensano che avere un contratto di lavoro pubblico esenti da valutazioni di qualità, adeguatezza, economicità.
Ma uno stipendio pubblico non garantisce automaticamente di produrre un buon servizio pubblico: anzi, la rigidità e l'arroccamento di molti "difensori del pubblico" fortemente sindacalizzati e refrattari ad ogni verifica "costo-beneficio" è nota da anni agli operatori del settore (pensiamo solo, restando alla scuola, al rifiuto dei test Invalsi, anche in questi giorni sui giornali, o al rifiuto di adeguarsi all'esperienza di Reggio Emilia, dove con le stesse risorse ma una diversa organizzazione si riesce a dare il servizio a un numero maggiore di bambini).
Io ritengo che sia giusto giudicare un bidello o un insegnante per il servizio reso alla collettività, e non per la natura pubblicistica o privatistica del suo datore di lavoro: dove sta scritto che lo Stato o il Comune siano di per sé garanti di qualità migliore rispetto ad una cooperativa o ad una associazione di genitori?
In terzo luogo, c'è un problema di coerenza politica. Il sistema pubblico integrato vigente è stato introdotto in Emilia Romagna nel 1995 dall'allora presidente Pierluigi Bersani, poi esteso a livello nazionale con la legge 62 del 2000 dal ministro Luigi Berlinguer (due noti esponenti di destra asserviti al Vaticano, secondo i referendari). E nel "Manifesto dei Valori del Partito Democratico", del febbraio 2008, si legge:
"Il welfare è la garanzia di condizioni dignitose di vita e di attività per tutti i cittadini, e in particolare per le classi e le persone più vulnerabili. Non deve essere una forma di assistenzialismo, bensì un insieme di servizi sociali, sanitari e formativi e uno strumento che renda più snella ed efficace l'azione pubblica, anche valorizzando l'apporto dei corpi della società civile, secondo il principio della sussidiarietà. Non tutto ciò che è pubblico, e che dunque svolge una funzione sociale, deve essere necessariamente statale. L'impresa sociale, il non profit, la cooperazione, il volontariato, l'iniziativa delle persone e delle comunità, devono essere messe in condizione, attraverso scelte politiche ed economiche adeguate, di collaborare con lo Stato per garantire i servizi necessari e la loro qualità. (...) Il Partito Democratico sostiene un sistema scolastico pubblico integrato".
Ci sono quindi ragioni più profonde del solo ragionamento pragmatico, pure molto rilevante (con 1 milione di Euro risparmiati tagliando il finanziamento alle scuole paritarie, il Comune riuscirebbe a soddisfare una minima parte dei 1.800 utenti delle paritarie, e se dovesse farsi carico di tutti dovrebbe aumentare la spesa di 7-8 milioni di Euro). E sono ragioni di politica in senso alto, cioè di visione dello Stato e della società, del ruolo dei cittadini e delle istituzioni, di valorizzazione di quanto il privato sociale è in grado di produrre per la collettività.
Da padre di 3 figli ormai adolescenti, e zio di una decina di nipoti, ho visto abbastanza mondo (anche scolastico) per convincermi che la differenza non la fa lo status pubblicistico o privatistico dell'istituto, ma la motivazione, la preparazione e l'organizzazione delle persone (come in tutti i campi: sanità, sociale, trasporti, ecc.) Sono quindi a favore di tutto ciò che stimola la competizione tra modelli diversi (in un quadro di regole dove lo Stato fissa gli obiettivi e svolge i controlli) e premia merito e impegno degli addetti. Sfido chiunque a dimostrare che questo modello (e la cultura che vi sta dietro) sia "di destra", e che invece la tesi per cui "pubblico è bello" indipendentemente da costi e risultati sia "di sinistra", se sinistra vuol dire ancora centralità dell'interesse collettivo, attenzione al bene comune, uso accorto delle risorse.
Come approfondimenti, vi invito a leggere alcuni articoli sul giornale on line BODEM, dove persone esperte come Gianluca Borghi, Ivana Summa, Paolo Ferratini, Walter Vitali rispondono a Giorgio Tassinari (promotore del referendum) e spiegano l'origine del sistema integrato, la corretta interpretazione dell'articolo 33 della costituzione, e la nozione di Scuola Pubblica.
Per votare, trovate a questa pagina le istruzioni e il vostro seggio.
2) POLITICA, MESTIERE, LIBERTA'.
Aprile è anche stato il mese dell'iniziativa "Reset PD", animata da giovani amministratori e funzionari di partito intenzionati a "riavviare da zero" il partito. Ho dato della cosa un giudizio un po' tranciante, affidato a Facebook e ripreso da alcuni giornali, su cui mi sento in dovere di dare qualche spiegazione. Il giudizio era questo:
Imparo che a Bologna giovani amministratori e funzionari di partito si autoconvocano alla Bolognina per "resettare il PD". Poi leggo i nomi e noto che nessuno degli autoconvocati ha un lavoro proprio, indipendente dalla politica. Difficilmente una soluzione può uscire dalla causa principale del problema.
Le repliche si sono concentrate su 3 punti: "Non siamo dei fannulloni"; "dedicarsi alla politica a tempo pieno non è un disonore"; e "nessuno ha il monopolio del rinnovamento". Chiarisco volentieri, come occasione per approfondire.
Primo, non mi permetterei mai di negare a chiunque, fosse anche stato Andreotti, di proporsi come innovatore. Credo però che occorra un po' di coerenza, quindi di autocritica da parte di chi finora è stato strenuo sostenitore delle scelte finora fatte dal partito ("Tutti con Bersani"), ed ora si propone come innovatore (magari apprezzando Renzi). Come ha scritto un amico, "le conversioni repentine vanno accompagnate da qualche esercizio di purificazione".
Secondo, non mi sogno nemmeno di pensare che un assessore o un funzionario di partito "lavorino poco": probabilmente lavorano anche più di me, e non ho mai pensato che siano "fannulloni". Pertanto la replica "Non sai quanto lavoriamo per la festa dell'Unità", non coglie affatto il punto.
Terzo, che qualcuno debba per forza dedicarsi a tempo pieno alla politica (sia nelle istituzioni, come amministrazioni, sia nel partito) è un fatto necessario, e quindi accettabile. Il problema è il dosaggio e il tasso di ricambio: se la maggior parte del personale politico locale provenisse da una esperienza professionale, e ad essa fosse in grado di tornare una volta esaurito il mandato amministrativo (o di partito), il problema della minoranza "di mestiere" non si porrebbe. Ma se ci accorgiamo che, su 100 nomi di politici locali, 80 gravitano intorno alla politica per il sostentamento proprio e della famiglia (e non da oggi, ma negli ultimi 10 anni, o addirittura dalla maggiore età), allora il problema si pone.
Perché? mi chiederete. Perché la mancanza di una fonte di reddito autonoma dalla politica limita molto la facoltà di una persona ad assumere liberamente scelte politiche che rischiano di pregiudicare il suo sostentamento. In altre parole, chi si trova in questa condizione difficilmente correrà il rischio di mettersi contro "la Ditta", ovvero quel sistema di relazioni (tra dirigenti di partito, amministratori locali e realtà economiche che lavorano soprattutto grazie alle buone relazioni con la politica) dal quale storicamente la gran parte del personale politico locale ha avuto negli anni garanzia di continuità professionale. Una continuità che va colta non solo nei passaggi tra ruoli di consigliere, assessore, sindaco di un comune, e poi consigliere provinciale, regionale, ecc, ma anche nelle nomine nelle società partecipate (a Bologna sono una cinquantina), negli incarichi nel sindacato o nelle realtà satellite (istituti di ricerca, fondazioni, ecc.), nel mondo cooperativo "d'area" (molti attuali dirigenti di cooperative Edilizie o di Grande Distribuzione hanno un passato da dirigenti di partito), e così via, per diverse migliaia di "posti" retribuiti.
E' evidente che la preoccupazione di fondo che legittimamente (e comprensibilmente: sarebbe lo stesso anche per me) guida un tale personale politico è in primo luogo quella di non essere espulso dal sistema, di "restare nel giro", di non perdere l'opportunità di un nuovo incarico, sia esso una candidatura, una nomina, una consulenza. Ed è altrettanto evidente che tutto il resto diventi, al cospetto di questa preoccupazione, poco o per nulla rilevante. E in questo "resto" ci va dentro un po' tutto: il merito tecnico delle questioni, la coerenza con una linea politica, il confronto con i cittadini, l'ascolto degli iscritti, i famosi "percorsi partecipativi": tutte cose che diventano marginali, non per cattiva volontà, ma per solide ragioni "sociologiche", che possiamo ricondurre alla "preoccupazione occupazionale" che agisce al fondo di ogni persona in queste condizioni.
Del prevalere di questa "preoccupazione occupazionale" abbiamo diversi esempi a Bologna: prendiamo appunto la politica sulle infrastrutture, che brilla per l'assenza di una analisi "laica" e scientifica dei dati. Opere di cui è stata più volte dimostrata l'inutilità (o meglio, il bilancio negativo tra costi e benefici) sono state portate avanti con una cocciutaggine altrimenti incomprensibile da parte degli amministratori di turno (pensiamo al Civis, prima avversato poi portato a termine dalla sinistra, passata dall'opposizione a Guazzaloca al governo di Cofferati, ma anche alla Metrotramvia), salvo poi schiantarsi, alla resa dei conti, contro qualche muro, giudiziario o economico (è la fine probabile del People Mover).
L'opacità di un percorso come quello del Passante Nord, progettato in un modo, poi cambiato sottobanco a motivo di un inesistente veto dell'Unione Europea, ed negli ultimi anni oggetto di una trattativa carsica, di cui emergono pezzi sparsi ogni tanto, non sarebbe altrimenti spiegabile.
La sordità degli amministratori, il silenzio imbarazzato del partito, l'irrilevanza di iniziative politiche come assemblee, raccolta di firme, ecc, si spiegano difficilmente, se non ricorrendo alla "preoccupazione occupazionale": se alcuni importanti attori economici locali hanno bisogno di mettere al bilancio una Grande Opera, e questi stessi attori hanno finora costituito un pezzo importante del sistema di relazioni locali, offrendo sbocchi professionali a generazioni di ex amministratori ed ex dirigenti di partito, è abbastanza prevedibile che quell'Opera incontrerà, nel cammino amministrativo e nel dibattito interno al partito, ostacoli deboli e comunque sempre "superabili", a prescindere dal fatto che sia giusta o sbagliata, che porti o meno un beneficio alla collettività. Anche a costo di un voltafaccia radicale, dall'oggi al domani, di interi gruppi consiliari (pensiamo appunto al caso Civis e Metrotramvia). Coi risultati che abbiamo visto: milioni di denaro pubblico gettati (ma anche fatturati almeno in parte dagli stessi attori di cui sopra), opere ferme, Bologna soffocata nell'inerzia.
Capite quindi che la mia osservazione, per quanto sgradevole (e di questo mi dispiace, sinceramente, e per questo mi scuso con le singole persone coinvolte), ha però qualche fondamento oggettivo, e coglie un elemento osservabile nella storia recente di Bologna. Un elemento che possiamo riassumere in questo paradosso: quando il personale politico è in gran parte dipendente dalla politica come sostentamento, facilmente viene a mancare un presupposto fondamentale per fare davvero politica, ovvero la libertà. Si tratta di una questione preliminare, che sta a monte rispetto alle idee, alle proposte, ai contenuti "delle politiche". E non è dettata da un mio malanimo, come qualcuno dice, ma da una osservazione analitica della realtà.
Riporto in proposito uno scambio avuto su Facebook con funzionario pubblico molto attento alle buone relazioni con la politica, che contro la mia tesi difendeva i politici di professione asserendone la maggiore competenza. A lui rispondevo: Questo è quanto emerge dall'osservazione sociologica dei comportamenti dei "politici di professione", dai consigli comunali in su: minima libertà, massimo opportunismo, quando non si tratti di pura e semplice obbedienza. E' questa la "professionalità politica" di cui abbiamo bisogno, di cui ha bisogno il Paese?
(Lui) Quindi tu Andrea quando sei stato in consiglio provinciale hai chiesto cosa dovevi fare o non lo hai fatto solo perchè lavori? Mi spiace leggere queste banalità grillo/berlusconiche da parte di una persona che stimo
(Io) Temo sia proprio così. Nei 5 anni di Provincia ho assunto posizioni e fatto battaglie "eretiche" (contro il Firma & Fuggi in commissione, contro il permesso di accesso alla ZTL ai consiglieri, che istituiscono regole dalle quali sono esenti, ecc.) Forse proprio per questo sono stato espulso, in seguito, da ogni posizione eleggibile. Alla base della mia marginalizzazione nel partito (di cui però ho fatto un punto di forza) sta certamente la mia libertà, vista come difficoltà a controllarmi. E uno dei fondamenti di questa libertà è anche un lavoro autonomo dalla politica.
Ciò detto, sono fiducioso che anche con i ragazzi di Reset PD, che sono svegli e capiscono queste cose, avremo un ampia strada comune da percorrere.
3) QUALE FUTURO PER IL PD? 3 DOMANDE...
L'assemblea nazionale del PD di sabato scorso ha eletto segretario "pro tempore" Guglielmo Epifani, già leader della CGIL, con il mandato a preparare il congresso di ottobre, dal quale tutti si aspettano una ridefinizione dell'identità e del futuro di questo partito. Personalmente propongo 3 punti che mi paiono dirimenti per l'identità e la missione di una forza politica come questo nostro Partito, e su questi dovrà giocarsi il Congresso, nazionale e locale.
A. Economia e lavoro. L'imprenditore, l'artigiano, il commerciante e in genere "la partita iva" sono lavoratori o no? Non pensiate che la domanda sia banale, perché proprio qui a Bologna, lo scorso 1 maggio, autorevoli esponenti del PD (come l'ex sindaco Cofferati), sostenuti da una larga fetta del sindacalismo di sinistra (la Fiom di Landini & Papignani) hanno risposto di no. Peccato sia mancata l'opinione di Rodotà, che all'ultimo ha dato forfait all'appuntamento "Lavoro e welfare per essere cittadini europei" nel quale, proprio alla vigilia del 1° maggio, è stata rilanciata la contrapposizione tra "lavoratori" e "padroni", insieme all'illusione che il lavoro e il welfare possano esistere senza un'economia privata che genera lavoro e gettito fiscale.
In proposito, esprimo la mia piena solidarietà alle persone come Raffaele Persiano, che il 1° maggio hanno dovuto fronteggiare l'aggressione (fortunatamente solo verbale) di questi sedicenti araldi del lavoro come conflitto permanente. Il PD ha tutto il diritto, anzi il dovere, di essere in piazza il 1° maggio, a fianco di tutti i lavoratori, e contro le ideologie distorsive della realtà. E su questo ha tutto il mio appoggio.
B. Pubblico e privato. Cosa è un servizio pubblico? Solo quello direttamente gestito da un ente pubblico, o da società controllate da enti pubblici, oppure anche quello gestito da privati in convenzione? Pensiamo a Scuola, Sanità, Trasporti: un taxi non effettua un servizio pubblico? Eppure il taxista non ha un contratto da dipendente dello Stato o del Comune. Anche su questa domanda, pur registrando con soddisfazione la generale maturità dei dirigenti del partito, almeno qui a Bologna (vedi la posizione chiara assunta sul Referendum), la risposta non è scontata, soprattutto in quadri intermedi educati ad una ideologia anti-privato, e all'idea (semplicemente folle) che l'economia potrebbe alimentarsi di sola spesa pubblica.
C. Debito e crescita. Il debito pubblico è un problema o no? Essere solvibili è importante? Nelle scorse settimane la notizia di una inesattezza in un articolo scientifico a sostegno di politiche di rigore finanziario ha diffuso l'idea che "l'austerità è dovuta ad un errore di calcolo". Piacerebbe fosse così, ma non è vero. Al massimo, il ricalcolo ridimensiona, non nega, la relazione tra debito (alto) e crescita (bassa). D'altronde funziona allo stesso modo anche per un'azienda o una famiglia: se devi pagare ogni anno alti tassi di interesse, il tuo reddito (familiare o aziendale) va a finire lì, nel costo del debito, anziché essere investito o usato per consumi. E come italiani paghiamo circa 85 miliardi di Euro all'anno di interessi passivi: denaro pubblico che viene sottratto a scuola, sanità, cultura, come anche a ponti, strade, bonifiche del territorio.
Basta pensarci. Noi tutti, se prestiamo soldi, vogliamo riaverli. Quindi saremo più propensi a prestarli a chi ci dà maggiori garanzie di restituirli (perché è attento alle spese, tiene una contabilità rigorosa, non si permette lussi, ecc.) e meno a chi fa scelte opposte (spende più di quello che incassa, tiene una contabilità allegra, ecc.) Se quest'ultimo vuole i nostri soldi, dovrà offrirci un tasso di interesse molto più alto (per compensare il rischio di insolvenza). Funziona così per tutti: privati, aziende, Stati. Quindi la scelta di spendere, come collettività, più di quanto si incassi, è sbagliata, eticamente ed economicamente, perché scarica sulle generazioni future il costo del presente (è quanto avvenuto in Italia nei decenni scorsi), e porta alla perdita di fiducia della comunità internazionale e degli stessi cittadini, che smetteranno di prestare soldi (= acquistare titoli) a chi rifiuta il rigore nei conti.
Non a caso le parole "Fido", "Affidamento", "Fiducia" hanno la stessa radice: economia e finanza si nutrono di fiducia, di credibilità, di capacità di mantenere le promesse. Se vieni meno alla parola data (non ripaghi il debito, non restituisci il prestito, non consegni il prodotto, ecc.) sei finito. E non per una congiura maligna, ma per il naturale meccanismo che regge le relazioni economiche e sociali. Il PD ha chiaro questo quadro, che porta diritto alla necessità di ridurre drasticamente la spesa dell'apparato pubblico per alleggerire la pressione fiscale sul lavoro e l'impresa? Oppure è ancora tentato dalla via "keynesiana", quella dell'aumento di una spesa pubblica, e quindi di un prelievo fiscale, già insostenibili?
Su temi come questi deve accendersi un confronto vero, serio, senza finzioni, per iniziare finalmente a praticare quell'incontro di culture riformiste che era all'origine del progetto prima dell'Ulivo (1996) e poi del Partito Democratico (2007), ma che finora è stato aggirato con accordi di comodo e spartizioni.
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Concludo invitandovi a leggere un confronto - sul progetto del Centro Sportivo del Bologna Calcio a Granarolo - tra me, il sindaco di Granarolo Loretta Lambertini, e il vicepresidente della provincia Giacomo Venturi, a questo link:
http://www.bodem.it/emilia-romagna
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Scusate come sempre la lunghezza, buonanotte e alla prossima.
Andrea De Pasquale
www.andreadepasquale.it