Bologna, 21 gennaio 2016.
Cari amici,
rieccomi alla nota periodica sulla politica bolognese. Trovate le precedenti sul mio sito. Rammento che per non ricevere questi messaggi è sufficiente chiedermi la cancellazione da questa lista, mentre se avete amici interessati segnalatemi la loro e-mail.
3 gli argomenti di questa edizione:
1. MOBILITÀ, DUE BUONE NOTIZIE (UNA FERROVIARIA, UNA STRADALE).
2. UN PROGETTO IMPORTANTE DI CONNESSIONE URBANA. CHE SI DIMENTICA DEL TRAM…
3. CHARLIE HEBDO UN ANNO DOPO. FANATISMO ISLAMICO E STRABISMO EUROPEO.
(Vedi anche facebook.com/andrea.depasquale)
******
1. Mobilità, due buone notizie (una ferroviaria, una stradale).
Ogni tanto accadono anche cose buone, e si fanno scelte giuste; fa piacere darne atto.
La prima buona notizia è che domenica 13 dicembre è stata inaugurata la seconda fermata della Stazione SFM San Vitale, sulla linea Bologna-Firenze, che si affianca a quella sulla linea Bologna Rimini, aperta nel settembre 2014 (proprio il giorno dell’incidente a Giacomo Venturi, inutilmente atteso per l’inaugurazione). Le due fermate insieme vanno a completare la Stazione San Vitale, uno dei due nodi di interscambio (l’altro sarà Prati di Caprara) che si aggiungono alla Stazione Centrale e che permetteranno al Servizio Ferroviario Metropolitano di essere più flessibile, e ai cittadini dell’area metropolitana bolognese di passare da una linea all’altra non solo in Centrale, ma in tre diversi punti della rete.
La Stazione è accessibile da via Rimesse, al centro del nuovo Quartiere che risulterà dalla fusione di San Vitale e San Donato; vi fermano già oggi 79 treni al giorno (47 sulla linea per Firenze, 32 su quella per Rimini) permettendo agli abitanti della zona di raggiungere in 3 minuti (e al costo di 1,30 euro) la Stazione Centrale (magari per andare a Roma o Milano in AV).
Si tratta di un bel passo avanti nel completamento del SFM (Servizio Ferroviario Metropolitano), e nell’offerta di alternative all’automobile privata, sia per gli spostamenti interni alla città, sia per quelli di area metropolitana. Mancano ancora – a mio giudizio – spazi adeguati per il parcheggio di biciclette e moto, indispensabili per allargare il bacino di utenza della Stazione e favorire lo scambio “gomma – ferro”. Si tratta ora di completare l’opera e di vigilare con decisione per contrastare sul nascere ogni vandalismo e degrado, fenomeni che purtroppo affliggono spesso questi luoghi.
La seconda buona notizia è un deciso cambio di linea politica riguardo il Passante Nord e l’ottica con cui affrontare il Nodo di Bologna (autostrada e tangenziale). Tra il 10 e l’11 novembre, tre giorni prima del convegno da noi organizzato (Per Davvero Urbanistica) sulle alternative al Passante Nord (sabato 14 novembre al Baraccano), prima un comunicato sottoscritto da 10 sindaci (tra cui quello di Bologna) e poi una dichiarazione dello stesso Merola, sanciscono un nuovo orientamento sulla soluzione del Nodo di Bologna. Si tratta di una svolta importante e positiva, che allontana il dibattito dal piano ideologico e lo riporta su dati oggettivi, numeri, costi e benefici. Si riconosce finalmente che il Passante costa più di quello che risolve, rispetto a un intervento sulla Tangenziale. E che il tram è il mezzo del futuro per il trasporto urbano anche per Bologna, come per decine di città di pari dimensioni che lo hanno scelto o ripristinato.
La reazione è stata una levata di scudi da parte di Confindustria, per una volta in coro con i sindacati, a dimostrare come sia difficile per questi soggetti andare oltre l’idea che per dare lavoro occorra consumare altro territorio e produrre altro cemento. Come ho scritto in risposta alle loro equazioni (Passante = sviluppo = occupazione), e come abbiamo ripetuto anche nel convegno del 14 novembre, andare oltre il Passante è la condizione per sbloccare la situazione e realizzare finalmente qualcosa di concreto. Restando legati al mito della Grande Autostrada in mezzo alla campagna (che non è più sostenibile, che suscita troppe opposizioni, che richiede troppo tempo, che non risponde ai flussi reali del traffico, e quindi non si farà mai), ci condanniamo all’immobilismo e tra 10 anni saremo ancora qui a discutere. Se invece avremo il coraggio di cercare delle alternative più fattibili, più economiche, e quindi più concrete, saremo in grado di aprire davvero dei cantieri, di far lavorare davvero delle imprese, e di presentare ai cittadini un miglioramento reale della mobilità. E se saremo bravi, ci resteranno pure le risorse per completare opere stradali come la Lungosavena, la Trasversale, il Nodo di Rastignano, eccetera. Perché di lavori utili ce ne sono, e molti.
Ma il documento firmato dai sindaci (guidati dal consigliere delegato alla Mobilità della città Metropolitana, Irene Priolo, sindaco di Calderara di Reno, che aveva già posto il problema a gennaio, e con coraggio ha portato avanti una battaglia di buonsenso) fa proprio anche un altro concetto, che considero molto importante, ed è che non possiamo più permetterci di avviare opere non supportate da studi seri sull’effettiva utilità collettiva, ed è finito il tempo in cui qualsiasi cantiere era sinonimo di sviluppo “a prescindere”.
Ora è importante che le istituzioni locali (Comune, Città Metropolitana e Regione) abbiano la capacità di tenere il pallino, e non lascino la partita totalmente in mano ad Autostrade per l’Italia (aspettando che faccia lei la progettazione, le valutazioni, ecc.). ASPI è un’azienda seria e rispettabile, ma ha come “mission” quella di far circolare il traffico autostradale, che è solo una parte (e non la principale) del Nodo di Bologna, dove il problema più grave riguarda il traffico locale, quindi la tangenziale. Bisogna insomma che alle dichiarazioni di novembre facciano seguito politiche coerenti, nelle quali siano le nostre amministrazioni a guidare il processo, anziché attendere altri.
Ne approfitto per ringraziare i tanti (circa 200 persone, la metà in piedi) che hanno partecipato al nostro convegno del 14 novembre, nel quale sono state illustrate tre alternative al Passante, tutte ruotanti intorno al potenziamento dell’attuale complanare (allargamento in sede, sopraelevata in sede, piattaforma unica). Una presenza notevole, che ha dato forza alla nostra tesi, e ci incoraggia a continuare le nostre battaglie, tra cui quella per riportare a Bologna il tram… (vedi il seguito).
2. Un progetto importante di connessione urbana. Che si dimentica del tram…
Nei mesi scorsi ho avuto occasione di visitare il cantiere del nuovo “Asse nord-sud”, ovvero il collegamento stradale tra via Bovi Campeggi e via De’ Carracci, che si sta realizzando mediante una galleria sotto il fascio dei binari in prossimità della stazione (appena fuori dal Piazzale Ovest).
Un progetto importante, parte dei lavori sul Nodo di Bologna collegati all’Alta Velocità, che permetterà di avvicinare due parti di città (il centro storico e i quartieri a nord) oggi separate dalla stazione ferroviaria, creando un collegamento intermedio tra il ponte di via Matteotti (a est) e il sottopasso di via Zanardi (a ovest). Dal nuovo sottopasso sarà inoltre possibile anche accedere al primo piano interrato della nuova Stazione AV (quello del Kiss and Ride e dell’accesso al parcheggio Salesiani). La galleria artificiale, a canna singola e lunga oltre 100 metri, ospiterà una strada a 3 corsie, due dedicate ai due sensi di marcia contrapposti, la terza all’accesso alla stazione (da sud a nord). Le dimensioni interne utili sono di 14,80 metri di larghezza e 6,70 di altezza (con solaio spesso 1,20 metri, pareti laterali 1,40).
Molto interessante la tecnologia di realizzazione, modificata in corso d’opera (è un po’ complicata da spiegare: diciamo in sintesi che rispetto all’originario progetto di messa in opera a spinta delle travi, mediante martinetti oleodinamici, si è passati alla realizzazione di un impalcato fondato provvisoriamente su paratie di micropali stabilizzate da tiranti attivi, e successivamente appoggiata ad una sottostruttura costruita dopo aver sbancato la terra e costruito la soletta di base e le pareti di sostegno all’interno della paratia di micropali). L’obiettivo è stato quello di minimizzare l’interferenza con l’esercizio ferroviario: i micropali sono stati realizzati di notte, operando su pochi binari alla volta (mediante perforazioni e iniezioni dalla superficie, in mezzo alle rotaie, che al mattino venivano liberate), e la successiva posa dei conci è avvenuta rimuovendo i binari e riposizionandoli in sede entro un massimo di 120 ore (5 giorni) per ciascun binario. In questo brevissimo intervallo si è realizzato lo scavo, il primo livellamento (con calcestruzzo e casseforme in legno), la posa delle gabbie metalliche di armatura, il getto del cemento, l’ancoraggio alla testa dei micropali, l'impermeabilizzazione con relative lastre di protezione, e infine il ripristino dei binari (incluso livellamento di precisione) in modo che potessero sostenere il traffico ferroviario dopo solo 48 ore dal getto.
Questo ha consentito di dimezzare il tempo di interruzione del traffico sui singoli binari, ottenendo una struttura che, benché larga 15 metri di luce, anche con carichi da 200 tonnellate contiene la flessione entro 1 millimetro. E di evitare le deviazioni rispetto all’asse longitudinale, che avrebbero comportato il rischio di “affondamento” dell’opera.
Insomma, un ammirevole lavoro di progettazione ed esecuzione, che ha visto collaborare professionalità, intelligenze, esperienze tra le migliori disponibili sulla piazza. Alla fine della visita, da buon ignorante (non sono ingegnere edile né ferroviario) ho fatto una domanda molto semplice: la galleria è stata pensata per consentire, un domani, il passaggio di un tram?
Ne è seguito un momento di silenzio imbarazzato: né i tecnici di RFI, né quelli delle aziende incaricate dell’opera, sono stati in grado di andare oltre le mezze risposte. “Forse sì, forse no, non siamo sicuri. Pensiamo di sì, bisogna verificare…” Ma non è colpa loro. Come non spetta ad Autostrade trovare soluzione alla mobilità locale, non tocca nemmeno l’azienda che gestisce la rete ferroviaria (né alle ditte esecutrici che lavorano per lei) porsi il problema del trasporto pubblico di Bologna. Il problema è che nessuno dell’amministrazione comunale (né tecnici né assessori) ha mai posto il tema, in quella sede. E questo nonostante l’opera sia il frutto di una conferenza di Servizi risalente al 1997 e di un accordo tra Comune, Provincia, Regione e RFI del 2007.
Un'ennesima prova di lungimiranza e di capacità di guardare al futuro della mobilità di Bologna.
3. Charlie Hebdo un anno dopo. Fanatismo islamico e strabismo europeo.
E’ passato un anno dal 7 gennaio 2015, giorno dell’attentato, nel centro di Parigi, al giornale Charlie Hebdo (12 morti nella redazione più altri 4 durante la fuga, e ulteriori 4 vittime in un negozio ebraico). La reazione immediata fu un onda di solidarietà, culminata nella partecipatissima manifestazione dell’11 gennaio, ad abbracciare insieme la capitale francese, già icona culturale e intellettuale dell’occidente, e un giornale satirico divenuto suo malgrado tragico simbolo della libertà di pensiero e di espressione.
Dopo l’identificazione emotiva del primo momento (con lo slogan “Je suis Charlie”), sono iniziate le opportune (anzi necessarie) distinzioni, tra il diritto (sacrosanto) di esprimere un’opinione e quello (meno difendibile) di insultare e dileggiare fedi e culture altrui. Personalmente sono certo che si possa (e per certi versi si debba) fare satira anche verso la religione (e in Italia abbiamo una grande tradizione di vignette anticlericali, spesso pure divertenti), ma sono altrettanto certo che disegnare Maometto con la faccia di un maiale non è satira. Questa infatti richiede intelligenza, finezza e senso del limite, qualità ben poco presenti nelle pagine che abbiamo visto su quel giornale, anche dopo la tragedia. Per questo mi sono sempre rifiutato di eleggere quella testata a bandiera dei miei valori di democrazia e libertà, esattamente come per le trovate del leghista Borghezio che passeggiava con porcellino al guinzaglio sulle aree destinate ad una moschea. Piuttosto, volendo cercare tra le vittime di Parigi un simbolo di civiltà e tolleranza, scelgo Ahmed Merabet, il poliziotto ucciso dagli attentatori in fuga: uomo di fede islamica freddato da terroristi islamici mentre difendeva, facendo il suo lavoro, anche i derisori della sua fede.
E’ stato davvero istruttivo (e preoccupante) vedere come molte voci levatesi a condannare (come è giusto, come è doveroso, come è necessario) la violenza terroristica, hanno tuttavia confuso, per lunghi mesi, la libertà di espressione con qualcosa di radicalmente altro. Qualcosa che non mi rappresenta, e non può rappresentare i valori di tolleranza e rispetto fondativi delle nostre società occidentali. Qualcosa di sprezzante verso ciò che non si capisce e non si condivide, qualcosa di intellettualmente spocchioso, di volutamente provocatorio, che ha a che fare con la pretesa di infrangere qualunque limite, di profanare qualunque simbolo, di violare qualsiasi spazio. E di farlo esibendo, in aggiunta, totale indifferenza per l’offesa, l’umiliazione, il dolore inflitto a chi invece tiene come caro e prezioso (come per una madre, come per un figlio) ciò che viene svilito e vilipeso.
In alcune santificazioni sommarie di Charlie (invero più francesi che italiane) abbiamo visto all’opera uno zelo laicista che è sembrato voler cogliere la circostanza per ribadire la tesi che non il fanatismo, ma le religioni sono la causa di ogni violenza, e che tutto sommato sbertucciare Cristo o Maometto (e di sorridere con sufficienza e superiorità davanti alle reazioni indignate) è una prova di maturità civile e culturale che qualunque cittadino democratico e moderno dovrebbe superare senza pudori e senza remore. Anche a Bologna non sono mancati tali maestri di pensiero, pronti a bollare il fenomeno religioso come una subcultura arretrata e dannosa, da stanare e umiliare appena possibile. In questo si è segnalata l’Arcigay nostrana, facendosi scudo proprio di Charlie Hebdo e delle sue vignette per giustificare la serata a tema intenzionalmente blasfemo organizzata al Cassero in marzo (Venerdì Credici, con la crocifissione che diventa un’orgetta omosex), poi a seguire con la polemica sollevata contro quanti (subito bollati come omofobi) hanno chiesto di rivedere le assegnazioni di spazi pubblici gratuiti (con tanto di utenze pagate dalla collettività e fuori da ogni bando e concorso pubblico) agli organizzatori di tali eventi. Esemplari sono state le “scuse” successive all’evento, affidate a un comunicato dove l’ineffabile Vincenzo Branà (quello che ha affermato che per un ateo non ha senso chiedere scusa, e, chissà, forse nemmeno lavarsi) dichiara che se proprio qualcuno è così limitato da offendersi per un simbolo religioso usato come giocattolo erotico, ciò dipende dalle credenze e superstizioni che inquinano la sua mente e il nostro vivere sociale, e non da altro, e che i veri blasfemi sono i cattolici. Chiaro no?
Ma la sottovalutazione del senso religioso, quindi della profondità dei sentimenti e del significato millenario di nomi e simboli che si vanno a toccare, se avviene da parte di un qualche giornale o associazione privata (per quanto pubblicamente sostenuta), è un fatto triste o poco più. Se fatta invece da politici, amministratori o uomini pubblici, diventa un errore madornale, e questo non in una prospettiva di fede, ma per così dire di materialismo storico, di governo laico di una società multiculturale.
Perché non possiamo pensare di fondare la pace e la convivenza sull’idea che vi sono valori di serie A (quelli che non tollerano critiche né satire né vignette, e che appena toccati invocano sanzioni e pubbliche condanne), e valori di serie B (quelli che invece devono sopportare insulti e sputi, perché siamo una società liberale). Pensiamo a cosa accade quando una dichiarazione o una battuta sfiora il mondo gay: nessuno vede esprimersi, nel caso, un diritto di opinione, ma al contrario si grida immediatamente alla bestemmia, si organizzano gogne mediatiche e si invocano leggi punitive e pene esemplari. Invece quando tocca ai simboli religiosi vale il contrario, e quelli che prima erano ARCIgni difensori dell’ortodossia politicamente corretta diventano improvvisamente, guardacaso, campioni della libertà di espressione. Un discreto strabismo, non vi pare?
Ma, dicevamo, è passato un anno. E la vignetta con cui Charlie ha ben pensato di celebrare l’anniversario del 7 gennaio (un Dio armato di mitragliatore nei panni dell’assassino in fuga) ha confermato non solo il cattivo gusto, ma anche la stupidità sottostante a questa sedicente “satira”. Che pretende di mettere nello stesso calderone il fedele e il fanatico, il poliziotto ucciso e i terroristi assassini, miliardi di fedeli (in maggioranza miti) e migliaia di violenti attizzatori di odio. Anzi, peggio ancora, che colpevolizza la fede della vittima piuttosto che il fanatismo degli attentatori (che nulla ha di religioso). Che tratta alla pari i fedeli (ebraici, cristiani, islamici) che si inginocchiano a pregare, e i violenti che sparano o si fanno esplodere. Una vignetta insomma che ha avuto il pregio di unire ancora una volta fedi e culture, stavolta contro Charlie, in un’unanime e corale condanna.
Quando poi, a valle dei fatti di Colonia (le molestie sessuali di piazza operate, pare, da gruppi di immigrati ai danni delle donne di passaggio) il giornale parigino ha voluto “fare satira” sul piccolo Aslan (il bambino riverso senza vita su una spiaggia siriana la cui foto ha fatto commuovere il mondo), immaginandolo – se sopravvissuto – futuro molestatore, il cerchio si è chiuso. Con la flebile e terribile protesta del padre di quel povero bambino, Charlie è definitivamente sceso dalla gloria a cui era stato improvvidamente innalzato. E a tutti è stato chiaro che il tema non è la religione o la libertà di espressione, ma l’intelligenza e il rispetto, senza i quali non esiste civiltà, non esiste convivenza, non esiste pace.
La lezione che traggo è la seguente: bisogna stare molto attenti ai simboli e ai soggetti che eleggiamo a bandiere della nostra civiltà liberale, nel confronto e nel conflitto con il fanatismo islamico. Se sbagliamo bandiera (e Charlie era evidentemente una bandiera sbagliata), finiamo per spingere intere masse di fedeli (di per sé non violente) nelle braccia dei nostri avversari, dei fanatici, dei violenti.
E mentre di qua dalla Manica si è cercato di affermare il diritto a disegnare Maometto come un maiale, di là abbiamo visto scelte assurde sul lato opposto, come quella dell’Oxford University Press (una delle maggiori case editrici accademiche al mondo, che pubblica libri in oltre 100 paesi), la quale ha diramato ai suoi autori linee guida secondo le quali, per non offendere nessuno, devono evitare l’uso di parole e immagini che richiamino i suini, mettendo all’indice in un sol colpo lo stinco al forno e Peppa Pig.
Pensate a come può vederci, noi europei, un osservatore esterno. Siamo quelli che da un lato difendiamo degli irresponsabili privi di qualsiasi rispetto umano, che sul loro giornale possono insultare chiunque, e dall’altro pretendiamo di cancellare dai libri un animale protagonista della nostra economia rurale, della nostra cultura alimentare, della nostra vita quotidiana e perfino dei cartoni animati dei nostri bambini.
Altro che strabismo, qui siamo proprio alla schizofrenia...
Per ora vi saluto, e alla prossima.
Andrea De Pasquale
www.andreadepasquale.it